«La notte del coraggio»: premio letterario Carlo Sgorlon 2016

Da ragazzo vissi sempre con la testa piena di vento. Vidi una volta un bambino che correva nel cortile con uno straccio sugli occhi e un’estrema sicurezza che fu distrutta bruscamente quando andò a sbattere contro la palizzata dell’orto. Per molto tempo io andai avanti alla maniera di quel bimbo. Non mi chiedevo il perché delle cose, mi limitavo a starci dentro con fervore avventuroso, con la faccia rossa e piena di stupore, come uno che abbia fatto una lunga corsa.
(Carlo Sgorlon, “Il trono di legno)

Quando il sole tramontava, ed il nonno saliva nella piccola stanza da letto per andare a coricarsi, Giovanni si alzava con un sorriso dalla poltrona del salotto e lo seguiva. Quando poi lo raggiungeva, il nonno si fingeva sempre sorpreso e si sedeva sul bordo del letto, intenerito.
«Che storia mi racconti, stasera?» domandava allora il nipotino, con gli occhi sognanti.
Giovanni adorava ascoltare i racconti del nonno. Erano sempre avventure tratte dalla sua vita stupefacente: storie di guerra, di coraggio e nascondigli segreti; il giorno dell’imbarco in una “carretta del mare” per la lontanissima America, gli anni lì trascorsi ed infine la fuga, il ritorno; dall’altra parte dell’oceano aveva lasciato il Friuli, la sua terra, dove aveva lasciato l’amore, favoleggiava…
“Da grande voglio esser come lui”, pensava Giovanni ogni volta, mentre il suo cuore galoppava.
La mamma ed il babbo erano andati, anche loro, a dormire con il calar del sole. La primavera era ormai inoltrata, dovevano alzarsi all’alba per potersi occupare di tutti i lavori; le due sole mucche andavano munte, le uova raccolte, gli orti coltivati. Le loro giornate sfilavano lunghe e faticose, e nemmeno con la pioggia si concedevano tregua.
Quella sera, all’improvviso, l’abbaiare di Kid distrasse Giovanni dalla voce del nonno.
Restò in ascolto per un po’, ma il cane non smise. Decise fosse il caso di andare a controllare. Con un tenero abbraccio, diede la buonanotte al caro nonno e scese i gradini di legno.
La casa era immersa nel silenzio, l’unico suono udibile era il leggero crepitio delle braci quasi spente nel fogolàr. Accanto, c’era ancora il pentolone con i bordi incrostati di polenta, ciò ch’era rimasto dalla cena della famiglia. Giovanni si precipitò alla finestra.
Il giovane cane bianco, solo, si agitava con frenesia. Giovanni non riusciva a capire. Lanciò un’occhiata alle scale, aspettandosi di veder comparire suo padre, ma ciò non accadde. Non ci pensò su; aprì la porta ed uscì di casa.
Udendo quel rumore, Kid si spaventò, strattonandosi in avanti. Guaì. Con uno strappo netto, la corda che lo teneva legato si spezzò.
Il ragazzino gridò. Il cane bianco corse via.
Giovanni lo guardò allontanarsi e non potè restare fermo. Cosa mai gli era preso? Suo padre si sarebbe arrabbiato moltissimo se avesse scoperto che l’aveva lasciato scappare… Ormai era calata la notte. Afferrò una torcia, appoggiata sul davanzale accanto all’ingresso, e col cuore avventuroso partì all’inseguimento.
La vecchia casa, nella periferia di Gemona del Friuli, sorgeva sul limitare di un boschetto nel quale qualche volta lui si era recato per cercare funghi con suo padre o per fare una passeggiata con gli amici, fino al Tagliamento. La città, rispetto alla casa, era ben visibile, situata più in alto; la strada per arrivarci era tutta in salita, ed ogni mattina, dopo aver aspettato lo scuolabus, la percorreva per raggiungere la scuola media.
Kid superò i filari di vite e scappò verso il bosco. Giovanni lo rincorse senza tregua e risultati; finché poi, ad un tratto, lo vide scomparire nel buio. Con le guance rosse ed il fiato corto, si fermò. Si guardò indietro per un istante; si rese conto di essersi allontanato più di quanto avrebbe pensato. Si sentì molto coraggioso, proprio come suo nonno.
Ormai doveva a tutti i costi riprendere Kid, così proseguì, addentrandosi nel fitto degli alberi.
Camminò a lungo, immerso nella notte; per molto tempo fischiò, chiamò il cane. Si guardava attentamente intorno, solo alberi, tronchi schierati come cupi busti di soldati, seppur irregolari, sfiorati dalla luce della torcia. Superò cespugli, scavalcò rocce umide e fredde.
Ad un certo punto, dopo aver provato per un po’ a riempirlo con la voce, il silenzio lo catturò. Era andato avanti fin troppo, esuberante e privo di senno, e per la prima volta si fermò ad ascoltare. Si accorse che l’aria sembrava respirare un’altra vita, all’interno del bosco; i rami oscillavano, ora placidi, ora scossi dal vento. Al di sopra dello sguardo, come un tetto sul cielo, le fronde filtravano la luce silenziosa delle stelle. La terra sotto ai piedi era umida e morbida, a tratti nascondeva foglie secche che scricchiolavano sotto ai passi come vecchie pagine di carta.
Vide di essere arrivato sino all’argine del fiume e vi si avvicinò. Il cielo era sereno, una mezzaluna rischiarava languidamente la notte. La vista dell’acqua sembrò ammansirgli l’animo come un abbraccio di sua madre. Ascoltò, in silenzio, il suo placido scorrere; ascoltò il bosco e se stesso. Comprese il piccolo grande universo che lo circondava come mai prima d’allora, e vedendosi lì immerso, sentendosi piccino, sentì una vertigine, lo colse un senso di paura. Si chiese dove fosse andato il suo cane e si chiese dove stesse andando lui stesso. Tutto sembrò fermarsi.
All’improvviso un boato spaventoso tuonò infrangendo il tempo, e sembrò che qualcosa attanagliasse le viscere della terra. Parve il grido di un gigante, il ruggito di un orco, “l’orcolat” pensò Giovanni, preso dal terrore, mentre la vecchia leggenda dell’orco rinchiuso nelle montagne carniche, di cui una volta gli narrò il nonno, gli pervase la mente. Subito dopo il suolo perse solidità. Giovanni era talmente atterrito da non capire cosa stesse succedendo, la notte lo accecava, la terra prese a tremare. Sussultava, si muoveva, gli sembrava di trovarsi sui cocci malfermi di un immenso vaso infranto. Gridò, provò a scappare ma cadde a terra, mentre il fiume emetteva un violento fragore. Pianse, pensò intensamente al volto di sua madre, credette di morire mentre il mondo lo scuoteva rimbombando di suoni orribili. Il terremoto sembrò durare un’eternità.
Poi l’eternità smise di vacillare.
Giovanni spalancò gli occhi, nel buio, stringendo la torcia. Aspettò. Diffidava di se stesso… Era veramente finita?
Lentamente si alzò. Respirava a malapena.
Un suono, simile a un pianto, si levò in quel momento da un cespuglio vicino. Giovanni ebbe un tuffo al cuore e dopo tanta paura si sentì quasi cedere dal conforto: era Kid! Corse verso il cane bianco e lo prese in braccio, stringendolo a sé. L’animale era freddo e tremava intensamente, tramortito dallo spavento. Giovanni vide che era ferito.
Sospirò: doveva tornare. S’avviò di nuovo nel bosco, i passi instabili come i pensieri. Si sentì così sciocco per non aver pensato al pericolo di addentrarsi lì, al buio, da solo; non conosceva nemmeno la strada di casa. Si sentì sciocco ad aver scambiato per coraggio quel suo modo d’agire così sprovveduto; il nonno non si sarebbe mai comportato così. Alla sua stessa età, tredici anni, giocava alla guerra e leggeva storie sulle trincee, ma non ambiva certo a morire per dimostrare coraggio; e poi nascondersi nei rifugi antiaereo, sotto ai boati della distruzione, scappare per nave, dall’altra parte del mare; sopravvivere in terre lontane. Era questo il vero coraggio. Non c’era nulla da dimostrare, fingersi intrepidi per quale trofeo? Solo ora Giovanni capiva. Aveva visto la vita scorrergli davanti in un istante, come il fiume; non aveva più tempo di avere paura. Voleva soltanto ritornare a casa e capiva perché anche il nonno l’avesse fatto.
Quando ritrovò la strada, ormai albeggiava. Un vento forte proveniva come un sussurro dalla città.
La sua vita cambiò per sempre dopo quella notte. Raggiugere la sua casa e trovare nient’altro che macerie e polvere, anche questo lo cambiò per sempre. Lo accolsero i baci, gli abbracci e le lacrime di una madre e di un padre che avevano perso tutto, ma che ancora scavavano a mani nude nei detriti alla ricerca di un figlio che s’era soltanto smarrito altrove. La loro gioia, il loro dolore, Giovanni non seppe mai realmente come raccontarli. E suo nonno, il suo amato nonno, il suo eroe; egli morì quella notte, sotto le macerie, sotto quel cielo punteggiato di stelle. Giovanni non ebbe mai più sì grande certezza: assieme a lui se ne andò per sempre anche una parte di sé.
Correva la notte del 6 maggio 1976.

NICOLE TURELLO

I mille volti della Maddalena: il mito della “sposa” di Cristo

Il professor Edmondo Lupieri ha tenuto il 20 giugno 2013, presso il complesso basilicale della «Madonna delle Grazie» in Udine per l’organizzazione di GrazieCultura e La Panarie, una conferenza dal titolo “Una Sposa per Cristo? La costruzione del mito di Maria Maddalena”.
Già nel titolo sono richiamati i temi salienti delle tesi proposte dal docente della Loyola University di Chicago: l’accortezza nell’utilizzo dell’iniziale maiuscola della parola “Sposa” congiuntamente al sottotitolo lasciano già intendere le conclusioni della dissertazione di Lupieri. Ma andiamo con ordine.

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Nel Vocabolario dei lussini le parole portate dal mare

L’inno A Lussino, eseguito dal coro di voci femminili “Vittorio Craglietto”, ha aperto sabato 14 giugno 2014 a Lussinpiccolo, nell’affollatissimo anfiteatro della Biblioteca Civica, la presentazione del Piccolo vocabolario imperfetto della parlata dei Lussini, edito dalla locale Comunità Italiana con il contributo del Ministero degli Affari Esteri di Roma.

Sempre piena de sol, de splendori / xe Lussin che se specia nel mar / xe un’ebrezza l’odor dei so fiori / El so limpido ciel fa incantar // Come un lago el so porto xe quieto, / qua le barche in riposo le sta. / O paese dal sol bendeto, / ti la gioia nell’aria ti ga // Le to picie casete i to orti / mete un senso de pase nel cor. / El to clima resuscita i morti / le to done risvela l’amor.

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“Te flùima de vita / Nella fiumana della vita”, poesie di Giovanni Maria Basso

A proposito dell’arte di poetare e dello scrivere in versi, gli antichi latini sentenziavano, saggiamente che “Versus non dant panem”, come a dire che non si vive di sola poesia. E dunque, nonostante questo, ed anzi proprio per questo, il nostro Autore ha perseverato nel suo intento poetico, e dal 1975 al 2010 ha seguitato a stilare almeno trecento composizioni poetiche in friulano, nella variante cividina. Di queste, 282 sono state raccolte in volume, con relativa traduzione in italiano, a cura di Fausto Zof, con illustrazioni di Ivaldi Calligaris ed Anna Degenhardt. L’antologia, un vero e proprio corpus della produzione di Basso, è stata edita per merito dell’Istituto Achille Tellini di Manzano nel 2011. Un bel traguardo, i tanti saggi poetici; e premia la costanza dell’Autore che ha sempre mantenuto la freschezza della sua vena poetica e la riservatezza umana di personaggio schietto e sincero, come lo è il suo mondo interiore ed il suo proporsi genuino, proprio perchè ha privilegiato il linguaggio della variante friulana del cividino di Orsaria. Il suo maestro e critico è stato il professor Gianfranco D’Aronco che, per così dire, ha avuto l’intuizione ed il merito di scoprirne il mondo poetico, il linguaggio spontaneo ma efficace, elegante ma non di maniera, capace di esprimere sentimenti nascosti, sensazioni profonde, partecipazione umana al comune sentire, nella serenità e nel dolore dei suoi simili. Senza dover utilizzare falsi, barocchi contorsionismi letterari. Il nostro ha saputo ricorrere saggiamente al vocabolario scabro ed immediato della sua lingua nativa, che gli è stata sempre congeniale, familiare, come lo è il suo conversare pacato, riflessivo, misurato, discreto, mai sopra le righe. Il suo sentire poetico raggiunge così l’espressione genuina che conquista il cuore e l’anima del lettore. Le sue riflessioni toccano l’amicizia e la fede, il dolore taciuto ed il ricordo di tempi andati, i personaggi femminili e le allegre brigate, lo scorrere infine della fiumana della vita, delle comuni vicende universali della moltitudine umana.

Nino Rodaro

“Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz

Con l’avvicinarsi della XXV Giornata di Amicizia Ebraico Cristiana (anticipata quest’anno al 16 gennaio, per dare modo anche ai fratelli Ebrei di potervi partecipare, in quanto cadendo il 17 gennaio di venerdì, nel pomeriggio/sera già accolgono la Festa del Sabato), presentiamo un libriccino davvero “esile”: perché «Yossl Rakover si rivolge a Dio» nell’attuale versione a stampa (Adelphi) conta poco più di 18 paginette. Continua a leggere “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz

“Il seminatore di Dio”, il primo volume delle Omelie di p. Cristiano Cavedon osm

Nella struttura dei testi di commento ai Vangeli della Domenica di padre Cristiano M. Cavedon trovo assonanze per certi versi analoghe a quelle dei versetti biblici: per la chiarezza assertiva, per i ritmi incisivi, per il sobrio candore con cui interpretano e trasmettono i fondamenti della parola divina liberandoli dalle superfetazioni, dalle incrostazioni sovrapposte nel tempo alla loro adamantina purità. Essi hanno la fresca limpidezza dell’acqua sorgiva, sono linfe che rigenerano le nostre anime stanche, distratte, adagiate nella passiva ripetizione di formule consunte dall’uso, ridotte quasi a scorze di corpi disseccati. Come scrosci di pioggia su campi inariditi fanno nuovamente lievitare i densi e vitali profumi della terra tornata a fecondare. Le parole del sacerdote, nate dal cuore prima ancora che dalla profondità di pensiero, ricadono nel cuore e nella mente degli ascoltatori. Continua a leggere “Il seminatore di Dio”, il primo volume delle Omelie di p. Cristiano Cavedon osm