Profilo friulano: Cristina Noacco

Iniziamo, doverosamente, con una presentazione personale.

Certo: sono una friulana nata a Udine (devo dire quando? Ma sì, il 19 settembre 1971) e cresciuta in un paesino di duecento abitanti, Cortale di Reana del Rojale, con riti e canti legati alla tradizione del Friuli salt, onest e lavoradôr.

Un percorso di studi abbastanza “classico”…

Iscritta all’Istituto magistrale Caterina Percoto di Udine per realizzare il sogno di fare la maestra, ho scoperto ben presto che le possibilità di occupare un posto di lavoro sarebbero aumentate in proporzione agli anni di studio. Ma in realtà mi sono iscritta alla facoltà di Magistero di Trieste per studiare la letteratura italiana e soprattutto Leopardi, il mio poeta preferito, dopo – se non addirittura prima – di Dante.

E immagino nasca così il desiderio di comporre poesie…

È stato forse quel malinconico passero solitario a spingermi a scrivere pensieri e ricordi. Sono la voce delle campane e delle rondini, della roggia e dei temporali. Ecco un frammento di pensiero sul rintocco dell’Ave Maria:
Slungje, slungje i braçs
a cirî l’aiar e il soreli.
Al sun de Ave Marie
la veretât e je plantade
inte tiere.

[Allunga, allunga le braccia / a cercare l’aria e il sole. / Al suono dell’Ave Maria / la verità è piantata / nella terra.]

Dove trovano il loro senso queste liriche?

Sono la voce di un radicamento, vissuto con forza e nostalgia soprattutto da quando, nel 1997, mi sono trasferita a Tolouse, in Francia, per continuare l’avventura degli studi con un dottorato di ricerca in Letteratura medievale.

Come mai una simile decisione?

È stato un autore, o meglio, un libro, a cambiare la mia vita: un romanzo in cui il protagonista deve riscattarsi agli occhi della società perché trascura il dovere di battersi. La risposta dell’autore, modernissima, mi ha fatto subito abbracciare la sua ideologia: partire all’avventura, non considerarsi mai arrivati.

Una avventura però non da poco…

Infatti! È iniziata con la traduzione in italiano di quel romanzo, Erec e Enide di Chrétien de Troyes (che ha ricevuto il Premio Leone Traverso Opera Prima per la traduzione nel 2000) e di un’altra storia medievale, Piramo e Tisbe; è continuata con un dottorato e un libro sul tema della metamorfosi nella letteratura medievale francese e continua con dei convegni, ai quali segue sempre la pubblicazione degli atti, su temi che riguardano la mitologia, la metamorfosi, la figura del maestro, il paesaggio allegorico e l’uomo dei boschi.
Ma devo dirlo? Sono partita per non fare la massaia come mia madre!
Lis maris di Cortâl
a son cressudis dretis,
a messe e cul grumâl
e cul comandament
di amâ, parsore dut,
Diu, l’om e la famee.

[Le madri di Cortale / sono cresciute dritte, / a messa col grembiule / e con il comandamento / di amare, soprattutto, / Dio, il marito e la famiglia.]
Desideravo essere considerata per i miei pensieri e non per la mia natura femminile, sinonimo di sacrificio, devozione e abnegazione. Desideravo nutrirmi di conoscenza, per imparare a pensare e a giudicare, per apportare un mattone –anche se infinitesimo – alla costruzione del sapere e condividere la gioia della conoscenza.

Ma com’è capitato di finire in Francia?

Dopo la tesi di laurea a Trieste ho partecipato, quasi per caso, a un congresso internazionale di letteratura medievale e lì, cioè a Garda, dove si teneva il congresso, ho conosciuto degli specialisti del mondo intero. Pensate, c’era perfino il traduttore giapponese del Roman de la Rose! Quando un professore di Toulouse mi ha proposto di iscrivermi alla sua università per continuare gli studi con un master e poi con un dottorato, non mi sono lasciata scappare l’occasione di volare via dal nido. La filosofia e i valori del XII secolo hanno avuto la meglio sui canti notturni e sulla malinconia degli idilli leopardiani, che continuo ad apprezzare come quando sono andata a studiare a Recanati, nella casa paterna del poeta, dove i libri proibiti sono ancora chiusi a chiave dietro la griglia di una vetrina.
In Francia ho trovato più di quanto speravo, perché l’insegnamento della letteratura francese medievale all’Università di Toulouse mi permette di confrontarmi con un pubblico di studenti adulti, che ascoltano con interesse e partecipano (certo, sollecitati dal voto) alle mie lezioni. E non è raro che una volta finito il loro percorso di formazione – se non prima – diventino anche dei buoni amici. Sono fiera di essere la testimone di matrimonio di una delle mie prime studentesse, la confidente di un giovane alle prime svogliato e adesso insegnante a sua volta, la “madrina” di un convegno organizzato da un altro studente, diventato docente di latino nella mia stessa università, l’ospite d’onore a istanbul di una giovane sposa turca, conosciuta quando era studentessa Erasmus, l’amica in visita a un giovane regista in erba, che, dopo aver seguito i miei corsi a Toulouse, si sta specializzando in una famosa scuola per il cinema a Bruxelles. Sento di aver trasmesso a questi giovani un po’ della mia passione per la sfida, la determinazione e la gioia per il lavoro che paga, sempre.

Ma nel frattempo…

L’anno scorso una nuova porta si è aperta: quella dell’espressione personale. Ho infatti trovato il coraggio di pubblicare quei pensieri che scrivevo di sera o in treno, per pormi domande esistenziali o dar sfogo alla nostalgia, insieme a qualche disegno che li illustra. Disegnare e scrivere sono per me due strumenti di espressione molto simili: si selezionano linee, forme, colori – così come suoni parole e frasi – e si sceglie di filtrare il reale, per far entrare nel proprio mondo solo ciò che si ama o che ci emoziona. I miei testi sono proprio questo: ricordi di emozioni, scritti per non dimenticarle.
La raccolta che ho pubblicato la scorsa estate si intitola Morâr d’amôr – Albero d’amore. Dietro il nome comune si nasconde la figura del gelso, che ho voluto figurasse anche sulla copertina del libretto, perché rappresenta per me il simbolo del Friuli, per l’importanza che l’allevamento dei bachi da seta, golosi di foglie di gelso, ha avuto nella storia della nostra regione fra Otto e Novecento. Come ogni albero, anche il mio si compone di Lidrîs, “Radici”, dove racconto l’amore per le mie origini; Ramaçs, “Rami”, che rappresentano le aspirazioni (l’amore, la conoscenza, Dio); Bùtui, “Germogli”, che suggeriscono la nascita di qualcosa di nuovo a primavera, una speranza, mentre l’ultima sezione, Fueis, “Foglie”, fa riferimento alla perdita delle illusioni e al distacco dal ceppo, come le foglie che in autunno cadono lontano dai rami, così come ogni emigrante si allontana con sofferenza dalla sua terra d’origine.
È così: nonostante il piacere di viaggiare, scoprire e imparare, mi sento un’esiliata, pur se volontaria. Affido quindi ai fogli del mio libretto e alle parole di questo scritto le mie confessioni più intime, ma anche l’augurio, per chi rimane, di poter gioire di ciò che possiede, prima di rammaricarsi di averlo perso.
Sêtu? Dulà sêtu?
Vâtu? Parcè vâtu?
Il gno fevelâ:
dûr in bocje,
dolç tal cûr.
…Ce aio di rispuindi?

[Ci sei? Dove sei? / Parti? Perché parti? / La mia lingua: / dura in bocca, / dolce nel cuore. / …Cosa devo rispondere?]
Il friulano e l’italiano, ma talvolta anche il triestino e il francese, diventano strumenti per guardare meglio dentro e intorno a me, per capire da dove vengo, per sapere dove vado, mentre l’acqua della roggia scorre gorgogliando:
Un pas dopo chel altri,
ma tant, tant plui lente,
tu le viodis a cori vie,
jê e dute la tô storie.

[Un passo dopo l’altro, / ma tanto, tanto più lenta, / la vedi scorrer via, / lei e tutta la tua storia.]

intervista a cura della REDAZIONE

Villotta? Sipario!

La villotta è sempre stata considerata una tra le espressioni più significative della musica e della tradizione popolari: cantata, armonizzata e ballata nelle sagre, nelle feste paesane, in quei Fogolârs dove sembra farsi memoria delle cose un po’ antiche. E oggi, dove tutto viaggia sui social network, a frasi non più lunghe di 160 caratteri, la villotta sembra esibire con vergognoso pudore una patina di desuetudine, di vecchia stanchezza, di roba di altri tempi. Continua a leggere Villotta? Sipario!

“Te flùima de vita / Nella fiumana della vita”, poesie di Giovanni Maria Basso

A proposito dell’arte di poetare e dello scrivere in versi, gli antichi latini sentenziavano, saggiamente che “Versus non dant panem”, come a dire che non si vive di sola poesia. E dunque, nonostante questo, ed anzi proprio per questo, il nostro Autore ha perseverato nel suo intento poetico, e dal 1975 al 2010 ha seguitato a stilare almeno trecento composizioni poetiche in friulano, nella variante cividina. Di queste, 282 sono state raccolte in volume, con relativa traduzione in italiano, a cura di Fausto Zof, con illustrazioni di Ivaldi Calligaris ed Anna Degenhardt. L’antologia, un vero e proprio corpus della produzione di Basso, è stata edita per merito dell’Istituto Achille Tellini di Manzano nel 2011. Un bel traguardo, i tanti saggi poetici; e premia la costanza dell’Autore che ha sempre mantenuto la freschezza della sua vena poetica e la riservatezza umana di personaggio schietto e sincero, come lo è il suo mondo interiore ed il suo proporsi genuino, proprio perchè ha privilegiato il linguaggio della variante friulana del cividino di Orsaria. Il suo maestro e critico è stato il professor Gianfranco D’Aronco che, per così dire, ha avuto l’intuizione ed il merito di scoprirne il mondo poetico, il linguaggio spontaneo ma efficace, elegante ma non di maniera, capace di esprimere sentimenti nascosti, sensazioni profonde, partecipazione umana al comune sentire, nella serenità e nel dolore dei suoi simili. Senza dover utilizzare falsi, barocchi contorsionismi letterari. Il nostro ha saputo ricorrere saggiamente al vocabolario scabro ed immediato della sua lingua nativa, che gli è stata sempre congeniale, familiare, come lo è il suo conversare pacato, riflessivo, misurato, discreto, mai sopra le righe. Il suo sentire poetico raggiunge così l’espressione genuina che conquista il cuore e l’anima del lettore. Le sue riflessioni toccano l’amicizia e la fede, il dolore taciuto ed il ricordo di tempi andati, i personaggi femminili e le allegre brigate, lo scorrere infine della fiumana della vita, delle comuni vicende universali della moltitudine umana.

Nino Rodaro

“Transitoria”: l’ultimo lavoro poetico di Antonella Sbuelz

Il significato particolare di questa silloge non è quello di un ritorno di Antonella Sbuelz alla poesia, ma piuttosto di una sintesi del suo percorso di scrittura: Transitoria viene a racchiudere elementi presenti anche nella narrativa e costituenti la sua matrice culturale, etica e ideale. Sul titolo del libro (interpretabile su molteplici piani) torneremo nel corso dell’analisi del testo.

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