«La notte del coraggio»: premio letterario Carlo Sgorlon 2016

Da ragazzo vissi sempre con la testa piena di vento. Vidi una volta un bambino che correva nel cortile con uno straccio sugli occhi e un’estrema sicurezza che fu distrutta bruscamente quando andò a sbattere contro la palizzata dell’orto. Per molto tempo io andai avanti alla maniera di quel bimbo. Non mi chiedevo il perché delle cose, mi limitavo a starci dentro con fervore avventuroso, con la faccia rossa e piena di stupore, come uno che abbia fatto una lunga corsa.
(Carlo Sgorlon, “Il trono di legno)

Quando il sole tramontava, ed il nonno saliva nella piccola stanza da letto per andare a coricarsi, Giovanni si alzava con un sorriso dalla poltrona del salotto e lo seguiva. Quando poi lo raggiungeva, il nonno si fingeva sempre sorpreso e si sedeva sul bordo del letto, intenerito.
«Che storia mi racconti, stasera?» domandava allora il nipotino, con gli occhi sognanti.
Giovanni adorava ascoltare i racconti del nonno. Erano sempre avventure tratte dalla sua vita stupefacente: storie di guerra, di coraggio e nascondigli segreti; il giorno dell’imbarco in una “carretta del mare” per la lontanissima America, gli anni lì trascorsi ed infine la fuga, il ritorno; dall’altra parte dell’oceano aveva lasciato il Friuli, la sua terra, dove aveva lasciato l’amore, favoleggiava…
“Da grande voglio esser come lui”, pensava Giovanni ogni volta, mentre il suo cuore galoppava.
La mamma ed il babbo erano andati, anche loro, a dormire con il calar del sole. La primavera era ormai inoltrata, dovevano alzarsi all’alba per potersi occupare di tutti i lavori; le due sole mucche andavano munte, le uova raccolte, gli orti coltivati. Le loro giornate sfilavano lunghe e faticose, e nemmeno con la pioggia si concedevano tregua.
Quella sera, all’improvviso, l’abbaiare di Kid distrasse Giovanni dalla voce del nonno.
Restò in ascolto per un po’, ma il cane non smise. Decise fosse il caso di andare a controllare. Con un tenero abbraccio, diede la buonanotte al caro nonno e scese i gradini di legno.
La casa era immersa nel silenzio, l’unico suono udibile era il leggero crepitio delle braci quasi spente nel fogolàr. Accanto, c’era ancora il pentolone con i bordi incrostati di polenta, ciò ch’era rimasto dalla cena della famiglia. Giovanni si precipitò alla finestra.
Il giovane cane bianco, solo, si agitava con frenesia. Giovanni non riusciva a capire. Lanciò un’occhiata alle scale, aspettandosi di veder comparire suo padre, ma ciò non accadde. Non ci pensò su; aprì la porta ed uscì di casa.
Udendo quel rumore, Kid si spaventò, strattonandosi in avanti. Guaì. Con uno strappo netto, la corda che lo teneva legato si spezzò.
Il ragazzino gridò. Il cane bianco corse via.
Giovanni lo guardò allontanarsi e non potè restare fermo. Cosa mai gli era preso? Suo padre si sarebbe arrabbiato moltissimo se avesse scoperto che l’aveva lasciato scappare… Ormai era calata la notte. Afferrò una torcia, appoggiata sul davanzale accanto all’ingresso, e col cuore avventuroso partì all’inseguimento.
La vecchia casa, nella periferia di Gemona del Friuli, sorgeva sul limitare di un boschetto nel quale qualche volta lui si era recato per cercare funghi con suo padre o per fare una passeggiata con gli amici, fino al Tagliamento. La città, rispetto alla casa, era ben visibile, situata più in alto; la strada per arrivarci era tutta in salita, ed ogni mattina, dopo aver aspettato lo scuolabus, la percorreva per raggiungere la scuola media.
Kid superò i filari di vite e scappò verso il bosco. Giovanni lo rincorse senza tregua e risultati; finché poi, ad un tratto, lo vide scomparire nel buio. Con le guance rosse ed il fiato corto, si fermò. Si guardò indietro per un istante; si rese conto di essersi allontanato più di quanto avrebbe pensato. Si sentì molto coraggioso, proprio come suo nonno.
Ormai doveva a tutti i costi riprendere Kid, così proseguì, addentrandosi nel fitto degli alberi.
Camminò a lungo, immerso nella notte; per molto tempo fischiò, chiamò il cane. Si guardava attentamente intorno, solo alberi, tronchi schierati come cupi busti di soldati, seppur irregolari, sfiorati dalla luce della torcia. Superò cespugli, scavalcò rocce umide e fredde.
Ad un certo punto, dopo aver provato per un po’ a riempirlo con la voce, il silenzio lo catturò. Era andato avanti fin troppo, esuberante e privo di senno, e per la prima volta si fermò ad ascoltare. Si accorse che l’aria sembrava respirare un’altra vita, all’interno del bosco; i rami oscillavano, ora placidi, ora scossi dal vento. Al di sopra dello sguardo, come un tetto sul cielo, le fronde filtravano la luce silenziosa delle stelle. La terra sotto ai piedi era umida e morbida, a tratti nascondeva foglie secche che scricchiolavano sotto ai passi come vecchie pagine di carta.
Vide di essere arrivato sino all’argine del fiume e vi si avvicinò. Il cielo era sereno, una mezzaluna rischiarava languidamente la notte. La vista dell’acqua sembrò ammansirgli l’animo come un abbraccio di sua madre. Ascoltò, in silenzio, il suo placido scorrere; ascoltò il bosco e se stesso. Comprese il piccolo grande universo che lo circondava come mai prima d’allora, e vedendosi lì immerso, sentendosi piccino, sentì una vertigine, lo colse un senso di paura. Si chiese dove fosse andato il suo cane e si chiese dove stesse andando lui stesso. Tutto sembrò fermarsi.
All’improvviso un boato spaventoso tuonò infrangendo il tempo, e sembrò che qualcosa attanagliasse le viscere della terra. Parve il grido di un gigante, il ruggito di un orco, “l’orcolat” pensò Giovanni, preso dal terrore, mentre la vecchia leggenda dell’orco rinchiuso nelle montagne carniche, di cui una volta gli narrò il nonno, gli pervase la mente. Subito dopo il suolo perse solidità. Giovanni era talmente atterrito da non capire cosa stesse succedendo, la notte lo accecava, la terra prese a tremare. Sussultava, si muoveva, gli sembrava di trovarsi sui cocci malfermi di un immenso vaso infranto. Gridò, provò a scappare ma cadde a terra, mentre il fiume emetteva un violento fragore. Pianse, pensò intensamente al volto di sua madre, credette di morire mentre il mondo lo scuoteva rimbombando di suoni orribili. Il terremoto sembrò durare un’eternità.
Poi l’eternità smise di vacillare.
Giovanni spalancò gli occhi, nel buio, stringendo la torcia. Aspettò. Diffidava di se stesso… Era veramente finita?
Lentamente si alzò. Respirava a malapena.
Un suono, simile a un pianto, si levò in quel momento da un cespuglio vicino. Giovanni ebbe un tuffo al cuore e dopo tanta paura si sentì quasi cedere dal conforto: era Kid! Corse verso il cane bianco e lo prese in braccio, stringendolo a sé. L’animale era freddo e tremava intensamente, tramortito dallo spavento. Giovanni vide che era ferito.
Sospirò: doveva tornare. S’avviò di nuovo nel bosco, i passi instabili come i pensieri. Si sentì così sciocco per non aver pensato al pericolo di addentrarsi lì, al buio, da solo; non conosceva nemmeno la strada di casa. Si sentì sciocco ad aver scambiato per coraggio quel suo modo d’agire così sprovveduto; il nonno non si sarebbe mai comportato così. Alla sua stessa età, tredici anni, giocava alla guerra e leggeva storie sulle trincee, ma non ambiva certo a morire per dimostrare coraggio; e poi nascondersi nei rifugi antiaereo, sotto ai boati della distruzione, scappare per nave, dall’altra parte del mare; sopravvivere in terre lontane. Era questo il vero coraggio. Non c’era nulla da dimostrare, fingersi intrepidi per quale trofeo? Solo ora Giovanni capiva. Aveva visto la vita scorrergli davanti in un istante, come il fiume; non aveva più tempo di avere paura. Voleva soltanto ritornare a casa e capiva perché anche il nonno l’avesse fatto.
Quando ritrovò la strada, ormai albeggiava. Un vento forte proveniva come un sussurro dalla città.
La sua vita cambiò per sempre dopo quella notte. Raggiugere la sua casa e trovare nient’altro che macerie e polvere, anche questo lo cambiò per sempre. Lo accolsero i baci, gli abbracci e le lacrime di una madre e di un padre che avevano perso tutto, ma che ancora scavavano a mani nude nei detriti alla ricerca di un figlio che s’era soltanto smarrito altrove. La loro gioia, il loro dolore, Giovanni non seppe mai realmente come raccontarli. E suo nonno, il suo amato nonno, il suo eroe; egli morì quella notte, sotto le macerie, sotto quel cielo punteggiato di stelle. Giovanni non ebbe mai più sì grande certezza: assieme a lui se ne andò per sempre anche una parte di sé.
Correva la notte del 6 maggio 1976.

NICOLE TURELLO

Profilo friulano: Cristina Noacco

Iniziamo, doverosamente, con una presentazione personale.

Certo: sono una friulana nata a Udine (devo dire quando? Ma sì, il 19 settembre 1971) e cresciuta in un paesino di duecento abitanti, Cortale di Reana del Rojale, con riti e canti legati alla tradizione del Friuli salt, onest e lavoradôr.

Un percorso di studi abbastanza “classico”…

Iscritta all’Istituto magistrale Caterina Percoto di Udine per realizzare il sogno di fare la maestra, ho scoperto ben presto che le possibilità di occupare un posto di lavoro sarebbero aumentate in proporzione agli anni di studio. Ma in realtà mi sono iscritta alla facoltà di Magistero di Trieste per studiare la letteratura italiana e soprattutto Leopardi, il mio poeta preferito, dopo – se non addirittura prima – di Dante.

E immagino nasca così il desiderio di comporre poesie…

È stato forse quel malinconico passero solitario a spingermi a scrivere pensieri e ricordi. Sono la voce delle campane e delle rondini, della roggia e dei temporali. Ecco un frammento di pensiero sul rintocco dell’Ave Maria:
Slungje, slungje i braçs
a cirî l’aiar e il soreli.
Al sun de Ave Marie
la veretât e je plantade
inte tiere.

[Allunga, allunga le braccia / a cercare l’aria e il sole. / Al suono dell’Ave Maria / la verità è piantata / nella terra.]

Dove trovano il loro senso queste liriche?

Sono la voce di un radicamento, vissuto con forza e nostalgia soprattutto da quando, nel 1997, mi sono trasferita a Tolouse, in Francia, per continuare l’avventura degli studi con un dottorato di ricerca in Letteratura medievale.

Come mai una simile decisione?

È stato un autore, o meglio, un libro, a cambiare la mia vita: un romanzo in cui il protagonista deve riscattarsi agli occhi della società perché trascura il dovere di battersi. La risposta dell’autore, modernissima, mi ha fatto subito abbracciare la sua ideologia: partire all’avventura, non considerarsi mai arrivati.

Una avventura però non da poco…

Infatti! È iniziata con la traduzione in italiano di quel romanzo, Erec e Enide di Chrétien de Troyes (che ha ricevuto il Premio Leone Traverso Opera Prima per la traduzione nel 2000) e di un’altra storia medievale, Piramo e Tisbe; è continuata con un dottorato e un libro sul tema della metamorfosi nella letteratura medievale francese e continua con dei convegni, ai quali segue sempre la pubblicazione degli atti, su temi che riguardano la mitologia, la metamorfosi, la figura del maestro, il paesaggio allegorico e l’uomo dei boschi.
Ma devo dirlo? Sono partita per non fare la massaia come mia madre!
Lis maris di Cortâl
a son cressudis dretis,
a messe e cul grumâl
e cul comandament
di amâ, parsore dut,
Diu, l’om e la famee.

[Le madri di Cortale / sono cresciute dritte, / a messa col grembiule / e con il comandamento / di amare, soprattutto, / Dio, il marito e la famiglia.]
Desideravo essere considerata per i miei pensieri e non per la mia natura femminile, sinonimo di sacrificio, devozione e abnegazione. Desideravo nutrirmi di conoscenza, per imparare a pensare e a giudicare, per apportare un mattone –anche se infinitesimo – alla costruzione del sapere e condividere la gioia della conoscenza.

Ma com’è capitato di finire in Francia?

Dopo la tesi di laurea a Trieste ho partecipato, quasi per caso, a un congresso internazionale di letteratura medievale e lì, cioè a Garda, dove si teneva il congresso, ho conosciuto degli specialisti del mondo intero. Pensate, c’era perfino il traduttore giapponese del Roman de la Rose! Quando un professore di Toulouse mi ha proposto di iscrivermi alla sua università per continuare gli studi con un master e poi con un dottorato, non mi sono lasciata scappare l’occasione di volare via dal nido. La filosofia e i valori del XII secolo hanno avuto la meglio sui canti notturni e sulla malinconia degli idilli leopardiani, che continuo ad apprezzare come quando sono andata a studiare a Recanati, nella casa paterna del poeta, dove i libri proibiti sono ancora chiusi a chiave dietro la griglia di una vetrina.
In Francia ho trovato più di quanto speravo, perché l’insegnamento della letteratura francese medievale all’Università di Toulouse mi permette di confrontarmi con un pubblico di studenti adulti, che ascoltano con interesse e partecipano (certo, sollecitati dal voto) alle mie lezioni. E non è raro che una volta finito il loro percorso di formazione – se non prima – diventino anche dei buoni amici. Sono fiera di essere la testimone di matrimonio di una delle mie prime studentesse, la confidente di un giovane alle prime svogliato e adesso insegnante a sua volta, la “madrina” di un convegno organizzato da un altro studente, diventato docente di latino nella mia stessa università, l’ospite d’onore a istanbul di una giovane sposa turca, conosciuta quando era studentessa Erasmus, l’amica in visita a un giovane regista in erba, che, dopo aver seguito i miei corsi a Toulouse, si sta specializzando in una famosa scuola per il cinema a Bruxelles. Sento di aver trasmesso a questi giovani un po’ della mia passione per la sfida, la determinazione e la gioia per il lavoro che paga, sempre.

Ma nel frattempo…

L’anno scorso una nuova porta si è aperta: quella dell’espressione personale. Ho infatti trovato il coraggio di pubblicare quei pensieri che scrivevo di sera o in treno, per pormi domande esistenziali o dar sfogo alla nostalgia, insieme a qualche disegno che li illustra. Disegnare e scrivere sono per me due strumenti di espressione molto simili: si selezionano linee, forme, colori – così come suoni parole e frasi – e si sceglie di filtrare il reale, per far entrare nel proprio mondo solo ciò che si ama o che ci emoziona. I miei testi sono proprio questo: ricordi di emozioni, scritti per non dimenticarle.
La raccolta che ho pubblicato la scorsa estate si intitola Morâr d’amôr – Albero d’amore. Dietro il nome comune si nasconde la figura del gelso, che ho voluto figurasse anche sulla copertina del libretto, perché rappresenta per me il simbolo del Friuli, per l’importanza che l’allevamento dei bachi da seta, golosi di foglie di gelso, ha avuto nella storia della nostra regione fra Otto e Novecento. Come ogni albero, anche il mio si compone di Lidrîs, “Radici”, dove racconto l’amore per le mie origini; Ramaçs, “Rami”, che rappresentano le aspirazioni (l’amore, la conoscenza, Dio); Bùtui, “Germogli”, che suggeriscono la nascita di qualcosa di nuovo a primavera, una speranza, mentre l’ultima sezione, Fueis, “Foglie”, fa riferimento alla perdita delle illusioni e al distacco dal ceppo, come le foglie che in autunno cadono lontano dai rami, così come ogni emigrante si allontana con sofferenza dalla sua terra d’origine.
È così: nonostante il piacere di viaggiare, scoprire e imparare, mi sento un’esiliata, pur se volontaria. Affido quindi ai fogli del mio libretto e alle parole di questo scritto le mie confessioni più intime, ma anche l’augurio, per chi rimane, di poter gioire di ciò che possiede, prima di rammaricarsi di averlo perso.
Sêtu? Dulà sêtu?
Vâtu? Parcè vâtu?
Il gno fevelâ:
dûr in bocje,
dolç tal cûr.
…Ce aio di rispuindi?

[Ci sei? Dove sei? / Parti? Perché parti? / La mia lingua: / dura in bocca, / dolce nel cuore. / …Cosa devo rispondere?]
Il friulano e l’italiano, ma talvolta anche il triestino e il francese, diventano strumenti per guardare meglio dentro e intorno a me, per capire da dove vengo, per sapere dove vado, mentre l’acqua della roggia scorre gorgogliando:
Un pas dopo chel altri,
ma tant, tant plui lente,
tu le viodis a cori vie,
jê e dute la tô storie.

[Un passo dopo l’altro, / ma tanto, tanto più lenta, / la vedi scorrer via, / lei e tutta la tua storia.]

intervista a cura della REDAZIONE

La peste di Udine del 1556 e la cacciata degli ebrei

A Udine, il 26 giugno 1719, «previo il suono della Tromba in concorso di molta Gente», fu pubblicato un «Proclama contro gli Ebrei» che recitava così: «Avendo il Magnifico Maggior Conseglio di questa città il dì 9 giugno 1556 con solenne voto deliberato: Che gli Ebrei introduttori fino all’ora del contagio Continua a leggere La peste di Udine del 1556 e la cacciata degli ebrei

I mille volti della Maddalena: il mito della “sposa” di Cristo

Il professor Edmondo Lupieri ha tenuto il 20 giugno 2013, presso il complesso basilicale della «Madonna delle Grazie» in Udine per l’organizzazione di GrazieCultura e La Panarie, una conferenza dal titolo “Una Sposa per Cristo? La costruzione del mito di Maria Maddalena”.
Già nel titolo sono richiamati i temi salienti delle tesi proposte dal docente della Loyola University di Chicago: l’accortezza nell’utilizzo dell’iniziale maiuscola della parola “Sposa” congiuntamente al sottotitolo lasciano già intendere le conclusioni della dissertazione di Lupieri. Ma andiamo con ordine.

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Giovanni Boccaccio: “Decamerone”, giornata X novella V

DECIMA GIORNATA – NOVELLA QUINTA

Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio. Messer Ansaldo con l’obligarsi ad uno negromante gliele dà. Il marito le concede che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l’assolve della promessa, e il nigromante,senza volere alcuna cosa del suo, assolve messer Ansaldo.
Per ciascuno della lieta brigata era già stato messer Gentile con somme lode tolto infino al cielo, quando il re impose ad Emilia che seguisse, la qual baldanzosamente, quasi di dire disiderosa, così cominciò: «Morbide donne, niun con ragione dirà messer Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler dire che più non si possa, il più potersi non fia forse malagevole a mostrarsi; il che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi”.

In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d’un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria. E meritò questa donna per lo suo valore d’essere amata sommamente da un nobile e gran barone, il quale aveva nome messer Ansaldo Gradense, uomo d’alto affare, e per arme e per cortesia conosciuto per tutto. Il quale, ferventemente amandola e ogni cosa faccendo che per lui si poteva per essere amato da lei, e a ciò spesso per sue ambasciate sollicitandola, invano si faticava. Ed essendo alla donna gravi le sollicitazioni del cavaliere, e veggendo che, per negare ella ogni cosa da lui domandatole, esso per ciò d’amarla né di sollicitarla si rimaneva, con una nuova e al suo giudicio impossibil domanda si pensò di volerlosi torre da dosso. E ad una femina che a lei da parte di lui spesse volte veniva, disse un dìcosì: - Buona femina, tu m’hai molte volte affermato che messer Ansaldo sopra tutte le cose m’ama e maravigliosi doni m’hai da sua parte proferti, li quali voglio che si rimangano a lui, per ciò che per quegli mai ad amar lui né a compiacergli mi recherei; e se io potessi esser certa che egli cotanto m’amasse quanto tu di’, senza fallo io mi recherei ad amar lui e a far quello che egli volesse; e per ciò, dove di ciò mi volesse far fede con quello che io domanderò, io sarei a’ suoi comandamenti presta. Disse la buona femina: - Che è quello, madonna, che voi disiderate che el faccia?

Il giardino incantato
Marie Spartali Stillman, «Il giardino incantato di Messer Ansaldo» (1889)

Rispose la donna: - Quello che io disidero è questo. Io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti albori, non altrimenti fatto che se di maggio fosse; il quale dove egli non faccia, né te né altri mi mandi mai più; per ciò che, se più stimolasse, come io infino a qui del tutto al mio marito e a’ miei parenti tenuto ho nascoso, così dolendomene loro, di levarlomi da dosso m’ingegnerei. Il cavaliere, udita la domanda e la proferta della sua donna, quantunque grave cosa e quasi impossibile a dover fare gli paresse e conoscesse per niun’altra cosa ciò essere dalla donna addomandato, se non per torlo dalla sua speranza, pur seco propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse; e in più parti per lo mondo mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o consiglio gli desse; e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse,per arte nigromantica profereva di farlo. Col quale messer Ansaldo per grandissima quantità di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo postogli. Ilqual venuto, essendo i freddi grandissimi e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, il valente uomo in un bellissimo prato vicino alla città con sue arti fece sì, la notte alla quale il calen di gennaio seguitava, che la mattina apparve,secondo che color che ‘l vedevan testimoniavano, un de’ più be’ giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d’ogni maniera. Il quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe veduto, fatto cogliere de’ più be’ frutti e de più be’ fior che v’erano, quegli occultamente fe’ presentare alla sua donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addomandato, acciò che per quel potesse lui amarla conoscere, e ricordarsi della promission fattagli e con sacramento fermata, e come leal donna poi procurar d’attenergliele. La donna, veduti i fiori e’ frutti, e già da molti del maraviglioso giardino avendo udito dire, s’incominciò a pentere della sua promessa. Ma, con tutto il pentimento, sì come vaga di veder cose nuove, con molte altre donne della città andò il giardino a vedere, e non senza maraviglia commendatolo assai, più che altra femina dolente a casa se ne tornò, a quel pensando a che per quello era obbligata. E fu il dolore tale, che non potendol ben dentro nascondere, convenne che, di fuori apparendo, il marito di lei se n’accorgesse,e volle del tutto da lei di quello saper la cagione. La donna per vergogna il tacque molto; ultimamente, costretta, ordinatamente gli aperse ogni cosa.
Gilberto primieramente, ciò udendo, si turbò forte; poi, considerata la pura ìntenzion della donna, con miglior consiglio, cacciata via l’ira. disse: - Dianora, egli non è atto di savia né d’onesta donna d’ascoltare alcuna ambasciata delle così fatte né di pattovire sotto alcuna condizione con alcuno la sua castità. Le parole per gli orecchi dal cuore ricevute hanno maggior forza che molti non stimano, e quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile. Male adunque facesti prima ad ascoltare e poscia a pattovire; ma per ciò che io conosco la purità dello animo tuo, per solverti dal legame della promessa,quello ti concederò che forse alcuno altro non farebbe; inducendomi ancora la paura del nigromante, al qual forse messer Ansaldo, se tu il beffassi, far farebbe dolenti. Voglio io che tu a lui vada, e, se per modo alcun puoi,t’ingegni di far che, servata la tua onestà, tu sii da questa promessa disciolta;dove altramenti non si potesse, per questa volta il corpo, ma non l’animo, gli concedi.
La donna, udendo il marito, piagneva e negava sé cotal grazia voler da lui. A Gilberto, quantunque la donna il negasse molto, piacque che così fosse. Perché, venuta la seguente mattina, in su l’aurora, senza troppo ornarsi, con due suoi famigliari innanzi e con una cameriera appresso, n’andò la donna a casa messere Ansaldo. Il quale, udendo la sua donna a lui esser venuta, si maravigliò forte, elevatosi e fatto il nigromante chiamare, gli disse: - Io voglio che tu vegghi quanto di bene la tua arte m’ha fatto acquistare -. E incontro andatole, senza alcun disordinato appetito seguire, con reverenza onestamente la ricevette, e in una bella camera ad un gran fuoco se n’entrar tutti; e fatto lei porre a seder,disse: - Madonna, io vi priego, se il lungo amore il quale io v’ho portato merita alcun guiderdone, che non vi sia noia d’aprirmi la vera cagione che qui a così fatta ora v’ha fatta venire e con cotal compagnia. La donna, vergognosa e quasi con le lagrime sopra gli occhi, rispose: -Messere, né amor che io vi porti né promessa fede mi menan qui, ma il comandamento del mio marito; il quale, avuto più rispetto alle fatiche del vostro disordinato amore che al suo mio onore, mi ci ha fatta venire; e per comandamento di lui disposta sono per questa volta ad ogni vostro piacere.
Messer Ansaldo, se prima si maravigliava, udendo la donna molto più s’incominciò a maravigliare; e dalla liberalità di Gilberto commosso, il suo fervore in compassione cominciò a cambiare, e disse: - Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore dello onore di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l’esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altramenti che se mia sorella foste, e, quando a grado vi sarà, liberamente vi potrete partire, sì veramente che voi al vostro marito di tanta cortesia, quanta la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servidore.
La donna, queste parole udendo, più lieta che mai, disse: - Niuna cosa mi potè mai far credere, avendo riguardo a’ vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate, di che io vi sarò sempre obbligata -; e preso commiato, onorevolmente accompagnata si tornò a Gilberto e raccontogli ciò che avvenuto era; di che strettissima e leale amistà lui e messer Ansaldo congiunse. Il nigromante, al quale messer Ansaldo di dare il promesso premio s’apparecchiava, veduta la liberalità di Gilberto verso messer Ansaldo e quella di messer Ansaldo verso la donna, disse: - Già Dio non voglia, poi che io ho veduto Gilberto liberale del suo onore e voi del vostro amore, che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò, conoscendo quello voi star bene, intendo che vostro sia. Il cavaliere si vergognò e ingegnossi a suo potere di fargli o tutto o parte prendere; ma poi che in vano si faticava,avendo il nigromante dopo il terzo dì tolto via il suo giardino, e piacendogli dipartirsi, il comandò a Dio; e spento del cuore il concupiscibile amore verso la donna, acceso d’onesta carità si rimase. Che direm qui, amorevoli donne? Preporremo la quasi morta donna e il già rattiepidito amore per la spossata speranza, a questa liberalità di messer Ansaldo, più ferventemente che mai amando ancora e quasi da più speranza acceso e nelle sue mani tenente la preda tanto seguita? Sciocca cosa mi parrebbe a dover creder che quella liberalità a questa comparar si potesse.

Nel Vocabolario dei lussini le parole portate dal mare

L’inno A Lussino, eseguito dal coro di voci femminili “Vittorio Craglietto”, ha aperto sabato 14 giugno 2014 a Lussinpiccolo, nell’affollatissimo anfiteatro della Biblioteca Civica, la presentazione del Piccolo vocabolario imperfetto della parlata dei Lussini, edito dalla locale Comunità Italiana con il contributo del Ministero degli Affari Esteri di Roma.

Sempre piena de sol, de splendori / xe Lussin che se specia nel mar / xe un’ebrezza l’odor dei so fiori / El so limpido ciel fa incantar // Come un lago el so porto xe quieto, / qua le barche in riposo le sta. / O paese dal sol bendeto, / ti la gioia nell’aria ti ga // Le to picie casete i to orti / mete un senso de pase nel cor. / El to clima resuscita i morti / le to done risvela l’amor.

Continua a leggere Nel Vocabolario dei lussini le parole portate dal mare

L’occhio della biglia (a Giorgio Celiberti)

Udine, 20 novembre 1939.

L’inverno non era ancora inverno, perlomeno sul lunario appeso al muro.
Era novembre, ma un novembre freddo, coi rami degli alberi gelati e la galaverna che al mattino ricamava geografie di ghiaccio sui vetri delle finestre , intente a ingaggiare battaglia contro i fendenti di bora e le lame di tramontana che soffiavano in raffiche furiose, abrasive come polvere di vetro sulla pelle delle guance o delle mani.
Immobile accanto alla finestra, Giorgio guardò giù, verso la strada. Continua a leggere L’occhio della biglia (a Giorgio Celiberti)

Villotta? Sipario!

La villotta è sempre stata considerata una tra le espressioni più significative della musica e della tradizione popolari: cantata, armonizzata e ballata nelle sagre, nelle feste paesane, in quei Fogolârs dove sembra farsi memoria delle cose un po’ antiche. E oggi, dove tutto viaggia sui social network, a frasi non più lunghe di 160 caratteri, la villotta sembra esibire con vergognoso pudore una patina di desuetudine, di vecchia stanchezza, di roba di altri tempi. Continua a leggere Villotta? Sipario!

“Te flùima de vita / Nella fiumana della vita”, poesie di Giovanni Maria Basso

A proposito dell’arte di poetare e dello scrivere in versi, gli antichi latini sentenziavano, saggiamente che “Versus non dant panem”, come a dire che non si vive di sola poesia. E dunque, nonostante questo, ed anzi proprio per questo, il nostro Autore ha perseverato nel suo intento poetico, e dal 1975 al 2010 ha seguitato a stilare almeno trecento composizioni poetiche in friulano, nella variante cividina. Di queste, 282 sono state raccolte in volume, con relativa traduzione in italiano, a cura di Fausto Zof, con illustrazioni di Ivaldi Calligaris ed Anna Degenhardt. L’antologia, un vero e proprio corpus della produzione di Basso, è stata edita per merito dell’Istituto Achille Tellini di Manzano nel 2011. Un bel traguardo, i tanti saggi poetici; e premia la costanza dell’Autore che ha sempre mantenuto la freschezza della sua vena poetica e la riservatezza umana di personaggio schietto e sincero, come lo è il suo mondo interiore ed il suo proporsi genuino, proprio perchè ha privilegiato il linguaggio della variante friulana del cividino di Orsaria. Il suo maestro e critico è stato il professor Gianfranco D’Aronco che, per così dire, ha avuto l’intuizione ed il merito di scoprirne il mondo poetico, il linguaggio spontaneo ma efficace, elegante ma non di maniera, capace di esprimere sentimenti nascosti, sensazioni profonde, partecipazione umana al comune sentire, nella serenità e nel dolore dei suoi simili. Senza dover utilizzare falsi, barocchi contorsionismi letterari. Il nostro ha saputo ricorrere saggiamente al vocabolario scabro ed immediato della sua lingua nativa, che gli è stata sempre congeniale, familiare, come lo è il suo conversare pacato, riflessivo, misurato, discreto, mai sopra le righe. Il suo sentire poetico raggiunge così l’espressione genuina che conquista il cuore e l’anima del lettore. Le sue riflessioni toccano l’amicizia e la fede, il dolore taciuto ed il ricordo di tempi andati, i personaggi femminili e le allegre brigate, lo scorrere infine della fiumana della vita, delle comuni vicende universali della moltitudine umana.

Nino Rodaro

“Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz

Con l’avvicinarsi della XXV Giornata di Amicizia Ebraico Cristiana (anticipata quest’anno al 16 gennaio, per dare modo anche ai fratelli Ebrei di potervi partecipare, in quanto cadendo il 17 gennaio di venerdì, nel pomeriggio/sera già accolgono la Festa del Sabato), presentiamo un libriccino davvero “esile”: perché «Yossl Rakover si rivolge a Dio» nell’attuale versione a stampa (Adelphi) conta poco più di 18 paginette. Continua a leggere “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz