Adelaide “Dedi” Bonvicini e Colloredo di Montalbano

Cosa ha portato una romagnola “tosta”, come la ricordano i nipoti, a frequentare per lunghi anni il Friuli e a vivere ed operare nel Castello nieviano di Colloredo? Certo l’amore per il marito Gianandrea Gropplero di Troppenburg, medaglia d’oro della Resistenza, conosciuto negli anni appassionanti della rinascita post-bellica, ma non solo. La scoperta del Friuli non ha seguito tanto il canovaccio rituale delle rimpatriate nobiliari settembrine e dei salotti buoni, quanto la vita autentica e faticosa dei paesi in fiore. Case e balconi curati, come diceva Dedi, da donne di straordinario vigore e dolcezza, paesi e donne con cui Dedi ha subito stabilito un legame profondo. Fino ad applicare qui, catturata da una sintonia con persone, luoghi, culture e colture del territorio friulano, il proprio innato spirito artistico e l’esperienza imprenditoriale maturata nella altrettanto amata Romagna.
Era nata nel ravennate a Massalombarda nel 1925 da una famiglia di imprenditori di grandi capacità; con orgoglio Dedi ricordava che i Bonvicini avevano inventato la frutticoltura industriale a partire dal bisnonno Eugenio, senatore dell’Italia finalmente unita (grazie a Garibaldi sostenuto ardentemente dalla famiglia e più volte ospite nella loro casa di Massalombarda), e poi dal nonno Adolfo che ne potenziò la capacità produttiva con una rete commerciale e logistica (su ferro) d’avanguardia e infine attraverso l’opera del padre Gaetano che nel primo dopoguerra, alla morte del genitore, ne rilanciò a livello europeo la diffusione sviluppando moderne tecnologie, con l’innovazione delle colture e inventando simpatici imballaggi griffati (come i cestelli di legno pieni di marmellata).
Le nefaste conseguenze della grande guerra toccarono anche casa Bonvicini, una casa aperta a tutto il paese, dove le fazioni politiche e lo squadrismo erano tenute a bada non tanto dal potere economico accumulato da decenni, quanto dalla politica sociale di inclusione. Famosa ed eccezionale, per quei tempi, la priorità di assunzione negli stabilimenti concessa alle ragazze madri (allora segregate e respinte dalla vita collettiva) e anche l’invenzione di concrete azioni di sostegno e incentivo a migliorare offerto alle parti più povere della cittadinanza (in particolare con la Facoltà ambulante di Agraria e favorendo nel paese la nascita di un indotto a rete di artigianato a supporto degli stabilimenti).
La casa aperta, in particolare ai bambini, divenne però il perfido tramite per l’ingresso dell’epidemia della febbre spagnola che falcidiò in un mese i tre fratellini maggiori di Dedi. I genitori lasciarono Massalombarda per un anno girando l’Europa per dimenticare il tremendo lutto e per rinsaldare i rapporti commerciali dell’azienda dopo il cataclisma bellico. Al ritorno nacque Eugenio e poi, un anno dopo, Dedi e la casa tornò a vivere e a sorridere. Qualche anno dopo nacque Giancarlo, il fratello minore di Dedi.
Il fascismo non entrò mai dai Bonvicini, da sempre anticlericali e garibaldini con forte animo sociale, ma Mussolini, conoscendo la testa dura dei romagnoli come lui, non li affrontò di petto, anzi provò ad affidare alle loro capacità manageriali progetti di sviluppo nei territori meno progrediti, come la zona salernitana di Paestum e Rodi nel Dodecanneso; in quei luoghi, ancora oggi, ci sono tracce positive di quell’antico impegno economico dei Bonvicini. Dedi ricordava di essere stata da bambina in quelle regioni, lontane dalla natia Romagna, accompagnando il padre imprenditore; esperienze di viaggio che certamente hanno contribuito a formare, fin da ragazzina, uno spirito aperto, la voglia di conoscere e una robusta capacità di decidere in autonomia e muoversi con le proprie gambe.
La prima prova difficile fu la morte del padre. Appena dodicenne decise, scelta tutta sua, di andare in Collegio al Poggio Imperiale a Firenze dove restò fino ai 18 anni. Ricordava con forte partecipazione quel periodo di studio, coltivò da allora il grande amore per il disegno e la storia dell’arte, e soprattutto gli anni di amicizia con ragazzine di tutte le regioni d’Italia e provenienti da molti paesi del mondo. Con affetto e ammirazione non mancava di delineare la capacità del Collegio di restare laico e defilato rispetto ai condizionamenti peggiori del fascismo.
Il ritorno definitivo a casa, ormai diciottenne (festeggiò quel passaggio di età brindando alla caduta di Mussolini decretata dal Gran Consiglio del fascismo la notte prima), avvenne nel pieno della guerra con i camion della ditta che attraversavano le linee del fronte carichi di frutta e verdura, ma anche di altro. Nel frattempo il fratello maggiore Eugenio si era unito alle forze partigiane e nelle cassette di frutta per Roma c’erano missive, ordini e i camion forse nascondevano anche persone che volevano unirsi alla Resistenza. Qui la storia di Dedi comincia a sfiorare quella del futuro marito. Scappati da Roma sotto il controllo nazifascista, Eugenio e Gianandrea si ritrovarono in Puglia, già liberata, ad addestrarsi insieme presso i Comandi Alleati per essere paracadutati nel nord Italia e tentare di sollevare le regioni alpine contro i fascisti e i nazisti: Eugenio nel Biellese e Gianandrea, dopo ripetuti tentativi, fra i contadini nelle colline dell’amato Friuli.
Nel frattempo il fronte era arrivato a Massalombarda e Dedi si trovò a capeggiare una schiera di familiari e sfollati impauriti nella grande casa con giardino al cospetto di ospiti del tutto indesiderati: un plotone di soldati tedeschi lì accampati. Da oltre il fiume, ad appena un chilometro di distanza, gli alleati bombardavano la casa senza però attaccare veramente. Molti mesi sul fronte segnarono la giovinezza di Dedi. Fino alle ultime settimane di vita ricordava episodi assurdi, tragici e divertenti allo stesso tempo. Quando lei, ancora minorenne, fu chiamata a rispondere presso il comando nazista della morte di un soldato tedesco alloggiato in casa Bonvicini. Forse stanco di guerra, costui si era intrufolato in cantina e incautamente, per farsi più di un goccio, aveva aperto una botte dal tappo principale in basso, finendo, del tutto ubriaco, per annegare nel vino. Dedi si salvò grazie al perfetto tedesco di una zia che aveva studiato in un buon collegio germanico e raccontò al comando invasore, in una lingua erudita che impressionò il capoccia, cosa era davvero successo.
Oppure come faceva nottetempo ad avere notizie dal fratello in montagna: attraverso Radio Londra Eugenio le mandava un messaggio in codice; diceva che la volpe di nome … (una bestiola addomesticata a cui avevano dato insieme un nome strano che solo loro conoscevano) è viva.
Subito dopo la guerra Dedi e il fratello Eugenio si trasferiscono a Bologna. Frequentano gli ambienti di Giustizia e Libertà dove incontrano Gianandrea che studia da ingegnere. Per Dedi e Gianandrea si accende il grande amore. Tutti insieme vanno in treno a Praga nell’estate del 1947 al raduno internazionale dei giovani antifascisti. Dedi, donna pratica, porta con sé le cassette di pesche romagnole che sfamano la carovana dei viaggiatori; ne dona anche alle donne accampate attorno alla stazione di Praga (che quel tipo di pesche forse non le avevano mai viste).
Dedi e Gianandrea si sposano e vanno a vivere nella casa che lei aveva comprato in Liguria sopra Recco a Mulinetti; qui nascono nel ’48 e nel ’49 i due figli maggiori Giampietro e Getana Ippolita. Ma l’idillio in riviera si interrompe presto. Lo spirito avventuroso di Gianandrea, lascito delle ferite e delle battaglie della Resistenza, ma forse anche ereditato dallo zio garibaldino Ippolito Nievo, lo porta a cercare fortuna in giro per il mondo.
Dedi, sola con due figli piccoli, cerca rifugio in Friuli e si stabilisce nell’ala Nievo del Castello di Colloredo. Poi ritorna a Bologna per cercare lavoro e crescere i figli. Insegna disegno presso La Casa del Fanciullo, recuperando la sua passione e una abilità manuale innata esercitata fin da bambina; poi il prof. Milletti, neurochirurgo di grande fama, la chiama ad illustrare a mano i dettagli delle sue operazioni al cervello. I disegni scientifici di Dedi, perfetti per accuratezza, arricchiscono numerose pubblicazioni mediche degli anni ’50.
Nel 1960 di nuovo una svolta; con i bambini raggiunge il marito nel frattempo insediatosi in Venezuela. Continua l’attività di illustratrice scientifica anche a Caracas dove resta fino alla fine del 1962. Il 1963 è l’anno del ritorno a Bologna e della nascita del terzo figlio Andrea, nato però in Friuli perché è lì che Dedi voleva accadessero i momenti fondamentali della sua vita.
Nel settembre del 1965, dopo una estate a Colloredo dove già aveva avviato con le donne del paese una produzione di fiori e borse con foglie di pannocchia di mais, Dedi parte per Brazzaville con Gianandrea incaricato dal FED, fondo per i paesi in via di sviluppo dell’allora Comunità Economica Europea, di realizzare strade per il Congo ex francese.
Dopo pochi anni una nuova e definitiva separazione dal marito. Dedi ritorna in Friuli passando dalla Francia in pieno maggio ’68. A Colloredo avvia l’azienda “Fiori d’arte Friuli”. Nel frattempo l’ala rossa del Castello è stata ristrutturata dalla madre di Gianandrea, Adele Gropplero Nievo e Dedi nel 1972 vi si insedia utilizzando il salone di giustizia come esposizione dei suoi fiori e anche delle borse, cesti, bomboniere e oggetti regalo, tutti progettati da lei per arricchire via via la gamma della produzione aziendale.
Sono gli anni che impegnano Dedi, forse ricordando l’esempio paterno, in continue iniziative per ampliare la vendita dei suoi prodotti friulani promuovendoli personalmente in fiere e sviluppando una rete distributiva in diverse città.
Una impresa ben avviata quella di Dedi, tanto che il suo amore per il Friuli la spinge a fare un altro passo. Pensa di rendersi autonoma dal marito anche a Colloredo e, con l’obiettivo di far crescere l’azienda e radicare ancora di più la sua presenza nel Castello, investe lei direttamente nel recupero e riqualificazione della parte bianca, quella nel lato est, a quell’epoca trasformata in pollaio.
Il tragico terremoto del 6 maggio del 1976 la coglie con le chiavi in mano per entrare nel suo nuovo domicilio allestito con grande cura nell’ala bianca del Castello.
Dedi, non potendo operare fra le rovine, deve, suo malgrado, tornare a Bologna continuando però per diversi anni ancora a tenere in vita l’azienda, sempre collaborando a distanza con le donne del paese ormai più amiche sincere che semplici collaboratrici. Anche dopo la chiusura dell’azienda Dedi ha continuato a disegnare e a fare fiori per regalarli a tutti, riempiendo (ancora oggi) dell’opera delle sue preziose mani le case dei figli, dei nipoti, di amici e conoscenti.
Il sogno della ricostruzione del Castello di Colloredo è rimasto ben fisso nella sua fervida mente fino agli ultimi giorni di vita. Giorni faticosi ma che le hanno per fortuna consentito un dolce commiato dalle persone amate, invocando con affetto e calore tutti i membri della famiglia e richiamandoli ad una unità di intenti che sottintendeva l’impegno per la rinascita del luogo nel Friuli tanto amato e per il ritorno, non suo, ma almeno dei figli e nipoti, nella dimora castellana.

GAETANA GROPPLERO TREVISANI

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