Matematica e musica

Matematica e musica sembrerebbero due ambiti molto distinti tra loro. In realtà hanno diversi punti in comune, come si può evincere già dalla loro definizione (tratta da Wikipedia):

  • MATEMATICA: disciplina che studia le quantità, lo spazio, le strutture e i calcoli.
  • MUSICA: arte dell’organizzazione dei suoni nel tempo e nello spazio.

Notiamo che la parola spazio si trova in entrambe le definizioni, così come organizzazione e struttura, che risultano essere due concetti strettamente correlati. Spazio, struttura ed organizzazione sono degli elementi che il linguaggio della matematica descrive in modo puntuale e rigoroso, ma il loro utilizzo viene sfruttato anche nell’ambito artistico così come nella musica.

SUONI ARMONICI

Uno dei fenomeni più significativi nella musica è quello dei suoni armonici: ogni suono contiene in sé infiniti altri suoni (frequenze) che, combinandosi assieme in dosi ed intensità diverse, ci fanno percepire un suono risultante. Ciò significa che ogni nota possiede fisicamente dentro di sé altre note, ma in dosaggi differenti. Ad esempio in un DO si trovano tanti SOL e MI (che originano la triade maggiore), ma anche SIb sebbene in misura ridotta, e anche RE in misura ancora minore.

I primi 16 armonici di DO.
[fig. 1] I primi 16 armonici di DO.
Il fenomeno fisico dei suoni armonici dunque ci permette di discernere quali note sono più vicine e quindi accostabili tra loro (consonanti) e quali viceversa originino sonorità dure all’orecchio (dissonanti) in base alla quantità di armonici che le due note hanno in comune.
Gli armonici hanno frequenze che sono multipli interi delle frequenze della nota fondamentale, ciò implica che il rapporto tra i numeri d’ordine dei vari suoni armonici corrisponde esattamente al rapporto esistente tra le loro frequenze. Es. il rapporto fra il DO2 e DO1 è 2⁄1, infatti la frequenza è doppia nella nota all’ottava superiore. Fra SOL3 e SOL2 il rapporto è 6⁄3, ancora frequenza doppia. Il rapporto tra SOL2 e DO2 (distanza di quinta) è 3⁄2, come facilmente evincibile dalle figure 1 e 2.

[fig. 2] I primi 7 armonici generati da una corda vibrante.
L’unisono (DO1–DO1) e l’ottava (DO1–DO2) sono intervalli molto consonanti ma particolari perché mettono la nota unicamente in relazione con se stessa. Dopo di essi l’intervallo di quinta (DO1–SOL1) è quello più consonante (le due note cioè hanno molti armonici in comune). Pitagora utilizzò proprio questo intervallo per definire le note della scala musicale: saltando di quinta in quinta (DO1 – SOL1 – RE2 – LA2 – MI3 … ecc.) egli potè trovare tutti i dodici suoni in cui ancora oggi è suddivisa una ottava (DO1–DO2) con uno scarto di approssimazione minimo (detto comma pitagorico), considerando i mezzi tecnici a sua disposizione.

TEMPO E RITMO

Il tempo di un brano, identificato dalla frazione posta accanto alla chiave all’inizio dello spartito, indica la grandezza di ciascuna battuta del brano stesso. Si differenzia dal ritmo che è tutt’altra cosa, ossia la successione dei diversi valori (durate) delle note di un pezzo. Il tempo ci dà però anche un’altra importantissima informazione, ossia quanti accenti ritmici vi sono in una battuta (lo spazio tra 2 stanghette verticali).
In matematica posso semplificare la frazione 4⁄4 in 2⁄2 in quanto equivalenti; viceversa in musica l’equivalenza decade perché nel primo caso avremo 4 accenti per battuta, nel secondo solamente 2. E ancora 6⁄8 si semplifica matematicamente in 3⁄4 ma in musica nel primo caso avremo 2 accenti, mentre nel secondo 3.
La nostra percezione fisiologica del tempo si rifà a 3 suddivisioni fondamentali: 2, 3 e 4. Qualsiasi tempo più grande viene ricondotto sempre al più semplice di questi 3 schemi. Dunque come assimiliamo noi un tempo di 6⁄8? Dividendolo inconsciamente in 3+3, quindi in 2 gruppi accentuativi principali (schema del 2). Ecco spiegato perché il 6⁄8 si rifà allo schema del 2. Come assimiliamo il 12⁄8? Dividendolo in 3+3+3+3, quindi in 4 gruppi accentuativi (schema del 4). Anche un tempo irregolare come il 5⁄4, assai usato nella musica jazz, viene percepito come raggruppamento di 2+3 oppure 3+2, a seconda della posizione degli accenti scelta dal compositore.

FORMA

Nella musica, la forma svolge da sempre un ruolo essenziale. Ogni brano è, nei fatti, un percorso, un viaggio, costituito da innumerevoli articolazioni, nel quale ci si allontana più o meno da “casa” e si percorrono sia strade nuove sia strade già note. Quelle nuove contribuiscono a stimolare la curiosità e ci invogliano a continuare il viaggio; quelle già note però ci permettono di mantenere dei punti saldi di riferimento, per non smarrirci. Vi è dunque una continua alternanza tra fasi espansive (con tendenza al nuovo, ad allontanarsi) e fasi distensive (con tendenza a ritornare su percorsi noti). La forma serve a gestire queste due componenti nel modo più efficace possibile, affinché lo slancio verso il nuovo e la tensione verso “casa” siano opportunamente bilanciati.
Parlando delle parti in cui viene suddiviso un brano (macrostruttura), ci sono schemi formali che hanno dato da secoli prova della loro efficacia:

  • A–A1: dove ad una prima parte espositiva delle idee musicali (A) segue una seconda (A1) che, pur ripercorrendole, le varia fornendoci uno stimolo;
  • A–B–A: dove l’idea iniziale A si alterna ad una totalmente nuova B, prima della ripresentazione finale già nota di A;
  • A–B–A–C–A–D–A… ovvero il rondò (circolo), dove l’idea iniziale A viene ripetutamente utilizzata in alternanza a idee sempre variate e diverse B, C, D… ecc. Questa struttura tipica del XVIII-XIX secolo è, se ci pensiamo bene, quella adottata dalle nostre moderne canzoni, costruite sull’alternanza tra ritornello (sempre uguale) e strofe (differenziate fra loro).

Considerando ora invece la microstruttura di un brano, ovvero le articolazioni interne ad una parte macrostrutturale (ad esempio le articolazioni interne ad A), scopriamo che la musica è davvero assimilabile ad un linguaggio, poiché come esso si presenta suddivisa in periodi, frasi, semifrasi, incisi e piedi. Il piede è la più piccola unità ritmica che indica in modo compiuto il movimento (in letteratura costituito da almeno 2 sillabe). Può corrispondere a mezza battuta, talvolta anche meno. Classicamente 2 piedi formano un inciso, 2 incisi una semifrase, 2 semifrasi una frase e 2 frasi un periodo. Ma naturalmente nella storia della musica esistono anche periodi irregolari formati da un numero variabile di frasi, incisi e piedi che ne aumentano la carica drammatica.

RIPETIZIONE E SIMMETRIA

Da un punto di vista estetico, la ripetizione è un classico canone di bellezza. La ripetizione tuttavia non deve rimanere sempre uguale a se stessa, altrimenti a lungo andare provocherebbe una sensazione di noia. Essa al contrario deve sempre essere innovata mediante piccole ‘variazioni sul tema’. Questi minuti e continui cambiamenti nella copia di un modello comune catturano lo spettatore, che si ritrova sempre stimolato dalle novità introdotte pur restando sempre in un contesto già noto. La natura ci offre molti modelli che si ispirano a questo paradigma: una fiamma ardente, i fiocchi di neve, il broccolo romanesco, la felce (fig. 3). Anche nell’arte si segue lo stesso paradigma.

[fig. 3] La simmetria in natura: il fuoco, i fiocchi di neve, il broccolo romanesco, la felce.
La ripetizione più banale è ottenuta traslando in orizzontale o in verticale l’oggetto originale; si può tuttavia introdurre una variabilità applicando all’oggetto ad esempio uno stiramento. Maggiori possibilità di variazione inoltre sono introdotte sfruttando la simmetria. Essa riproduce il modello secondo regole geometriche ben precise. Le simmetrie più semplici sono quelle rispetto ad un asse orizzontale o verticale.
Ripetizione e simmetria sono concetti utilizzati ampiamente anche in musica. Lo spartito musicale infatti può essere considerato alla stregua di un grafico matematico in cui l’asse delle ascisse rappresenta il tempo e l’asse delle ordinate indica la frequenza (altezza) delle note. Ecco in fig. 5 come le trasformazioni sopra descritte si possono applicare ad uno spartito (in questo caso la prima battuta di Fra Martino).
La forma musicale che sfrutta maggiormente queste trasformazioni si chiama Canone (dal greco Kanon = legge o regola). Il canone più famoso (e semplice) è senza dubbio il già citato Fra Martino; si tratta di una canzone popolare francese del XVIII sec. attribuita a Jean Philippe Rameau in cui la voce principale viene ripetuta ad intervalli costanti. Altro esempio, famoso in quanto utilizzato spesso come colonna sonora dei matrimoni, è il Canone del religioso e musicista tedesco Johann Pachelbel (XVII sec.).

[fig. 4] Le trasformazioni applicate alla prima battuta di "Fra Martino campanaro".

JOHANN SEBASTIAN BACH (1685-1750)

Colui che ha utilizzato queste trasformazioni con grande maestria è stato Johann Sebastian Bach, compositore e musicista tedesco del periodo barocco. Bach aveva una particolare predilezione per il numero 14: se si fa corrispondere ad ogni lettera dell’alfabeto1 un numero progressivo (A=1, B=2, C=3, ecc.) secondo il procedimento chiamato gematria, si vede che le lettere B-A-C-H corrispondono ai numeri 2-1-3-8, la cui somma vale 14. Se alle lettere BACH si aggiungono anche le iniziali JS, si ottiene 41 che è lo speculare di 14. Elenchiamo ora alcune notevoli opere di Bach costruite matematicamente.
Il tema dell’aria iniziale delle Variazioni Goldberg (BWV 988, 1741-1745) consta, una volta depurato dagli abbellimenti, di 14 note. Le Variazioni comprendono: 1 (=A) aria, 3 (=C) variazioni in minore e 28 pezzi rimanenti (2=B e 8=H): ridistribuendo le lettere troviamo ancora BACH.
Nell’Arte della Fuga (BWV 1080, 1740-1750) sono presenti 14 contrappunti, di cui 2 (=B) fughe a specchio, 1 (=A) grande fuga, 3 (=C) fughe a imitazione e 8 (=H) fughe semplici doppie e triple, ancora BACH. Applicando la gematria al titolo originale tedesco “Die Kunst der Fuga”2 si ottiene il numero 158, lo stesso numero che si ottiene applicando la gematria al nome completo “Johann Sebastian Bach”. E ovviamente 1+5+8=143!!! Di mirabile costruzione risulta il Contrapunctus VII a 4 voci per aumentazione e diminuzione: al suo interno Bach riuscì ad inserire ben 28 (il doppio di 14) ripetizioni del tema principale, usando 16 moti retti e 12 moti contrari, con aumentazione e diminuzione.
L’Offerta Musicale (BWV 1079, 1747) fu scritta da Bach in onore del re Federico II di Prussia, grande appassionato di musica e suonatore dilettante di flauto. Il re invitò Bach a palazzo e gli fece provare i suoi innumerevoli clavicembali, Bach per ringraziarlo gli chiese un tema su cui improvvisare una fuga a 3 voci, cosa che fece puntualmente nonostante il tema proposto fosse piuttosto complicato. Il re allora lo volle sfidare ulteriormente chiedendogli di improvvisare una fuga a 6 voci sullo stesso tema, Bach riuscì nell’impresa usando un tema semplificato e si ripropose di spedire successivamente al re la fuga sul tema completo. Alla fine, oltre alla fuga, Bach aggiunse altri 12 pezzi, tutti dedicati al re. Di particolare interesse risulta il cosiddetto Canone Cancrizzante, che può essere suonato in contemporanea partendo dall’inizio (moto retto) e partendo dalla fine (moto retrogrado).

[fig. 5] Le 14 note che compongono l'aria iniziale delle Variazioni Goldberg.

Nel gennaio 1974, nella terza pagina di copertina di una stampa originale delle Variazioni Goldberg, venne ritrovato un foglio manoscritto che, dopo perizie tecniche e calligrafiche, fu attribuito senza ombra di dubbio a Bach. Si trattava di 14 Canoni sulle prime 8 note del basso Goldberg (BWV 1087, 1747). Bach li compose per motivi di analisi e di speculazione teorico-matematica. Tutti i canoni trovano spazio in un’unica facciata perché sono trascritti in modo ‘enigmatico’, nel senso che Bach ha scritto soltanto la voce principale mentre tutte le altre sono solo abbozzate usando dei simboli particolari che vanno ovviamente decifrati. Una specie di Settimana Enigmistica ante litteram. In questa sede citiamo soltanto il Canon Duplex a 4 voci, che prevede una parte principale (moto retto) coesistente esattamente con la sua riflessa rispetto ad un asse orizzontale (moto inverso).
Bach non ha scritto alcun pezzo che possegga interamente la trasformazione retrograda inversa. In generale questa tipologia di canone è molto rara, poiché la sua costruzione risulta particolarmente ostica. A causa del fatto che le due trasformazioni (riflessione sia sull’asse orizzontale che sull’asse verticale) corrispondono ad una rotazione di 180°, questi canoni sono anche detti canoni al tavolo perché possono essere suonati contemporaneamente da due esecutori disposti uno di fronte all’altro ai due estremi di un tavolo leggendo lo stesso spartito. L’esempio più famoso è il Canone a Specchio, di origine incerta ma attribuito probabilmente a Mozart.

FRANCESCO GIOIA, GIULIO PRAVISANI


[1] Al lettore curioso, che volesse cimentarsi con i conti, segnaliamo (senza addentrarci in motivazioni storiche) che questo alfabeto vede come “intercambiabili” le lettere “i” e “j”, che pertanto riceveranno lo stesso valore numerico (9).
[2] Questa forma del titolo è tratta dal Mus. ms. Bach P 200.
[3] Se le strutture matematiche utilizzate da Bach sono ineccepibili, è opportuno ricordare che queste coincidenze numerologiche, per quanto suggestive, vanno comunque valutate sotto un profilo più ludico che scientifico.

L’altrabilità nel cuore della Fondazione Friuli

La disabilità intellettiva non è per forza un problema, ma può essere viceversa trasformata in una preziosa risorsa. Lo sanno bene alla Fondazione Down FVG di Pordenone, dove da diversi anni si (pre)occupano di predisporre percorsi di crescita rivolti a giovani con sindrome di Down.
L’istituzione nasce nel 1991 come Associazione e nel 2013 opera la trasformazione in Fondazione, uno strumento giuridico capace di dare maggiore sicurezza e stabilità ai progetti.
L’impegno principale si concretizza già dal 2013 con “Casa al sole”, a cui sono affiancati i “Percorsi di autonomia”, dove diventa fondamentale considerare il disabile intellettivo non come un eterno bambino a cui provvedere oppure un malato da curare, bensì come una persona capace di crescere e diventare adulta, con facoltà decisionali, di pensiero e di relazione che devono essere accompagnate verso uno sviluppo il più possibile autonomo.
Il disabile intellettivo, infatti, è portatore di aspirazioni e desideri, vuole partecipare alla vita della società e trascorrere un’esistenza indipendente dalla famiglia di origine, con una propria casa dove tornare dopo il lavoro, dove invitare gli amici, dove dare spazio agli affetti.
A queste esigenze rispondono innanzitutto i “Percorsi di autonomia”, rivolti ad adolescenti e giovani che vivono ancora in famiglia, partendo dagli ultimi anni della scuola superiore: le esperienze sul campo hanno positivamente dimostrato che il lavoro precoce sullo sviluppo delle autonomie consente ai giovani di esercitarle nel loro contesto abitativo, familiare, sociale e permette di prepararsi a un futuro, ulteriore slancio verso la vita indipendente. Questo progetto consiste infatti in percorsi di autonomia relazionale e di autodeterminazione, insieme all’acquisizione delle abilità di base necessarie per una vita il più possibile autonoma.
Le famiglie, inoltre, hanno un ruolo fondamentale nell’accompagnare i propri figli verso l’indipendenza, ma spesso non sono preparate, non sanno come agire e quindi hanno anch’esse bisogno di essere seguite in questo percorso. È infatti necessario che i genitori imparino a modificare il proprio modo di relazionarsi con il figlio, riducendo gradualmente l’influenza nella sua vita, concedendogli di distanziarsi e riconoscendogli la possibilità di decisioni autonome.
La famiglia dunque lavora innanzitutto assieme all’educatore, con il quale costruisce un’alleanza volta a una collaborazione educativa capace di favorire il processo di separazione da un lato e di individuazione dall’altro, essenziali per il raggiungimento di un’identità adulta e stabile. La Fondazione mette poi a disposizione una psicologa che aiuta le famiglie ad affrontare le difficoltà che i processi di autonomia comportano.
Il progetto “Casa al sole” costituisce in un certo senso il naturale compimento dei “Percorsi di autonomia”. È rivolto ai giovani adulti, generalmente già inseriti nel mondo del lavoro e in possesso di sufficienti capacità di indipendenza che desiderano decidere in proprio le scelte quotidiane della vita.
Uno specifico percorso di crescita agevola i giovani affinché possano raggiungere gradualmente un ruolo adulto, siano capaci cioè di prendersi cura di sé, di scegliere e di decidere, di vivere una vita il più possibile normale, in una propria casa, a piccoli gruppi, in normali abitazioni, seguiti da educatori che gradualmente riducono la loro presenza in base alle autonomie acquisite.
Il metodo educativo usato si propone di favorire l’autonomia relazionale e l’autodeterminazione, superando un’indipendenza puramente esecutiva dove invece il pensiero e la decisione spettano comunque ad altri.

Un momento di partecipazione al Meeting di Lignano assieme ai portatori di altrabilità.

Il progetto “Casa al sole” si articola in una prima fase formativa che si svolge inizialmente in un appartamento chiamato proprio “Casa al sole”: è previsto un periodo di alternanza tra la famiglia e la residenza, che dura circa tre anni e porta gradualmente al primo traguardo di vita autonoma. L’educatore, la cui presenza viene gradualmente ridotta, aiuta il giovane a rendersi sempre più capace di autodeterminazione, di protagonismo adulto e di indipendenza. A questa prima fase partecipano quattro persone alla volta, e viene attuata in un normale appartamento nel centro di Pordenone, i cui costi sono a carico dell’AAS 5 Friuli occidentale, mentre gli inquilini contribuiscono con le spese vive (vitto, spese personali, gestione della casa).
La seconda fase prevede la stabile dimora in normali case di civile abitazione, chiamate “Case satelliti”, in cui vivere a piccoli gruppi come un qualsiasi nucleo familiare, a fronte di una minima presenza educativa comunque adeguata alle necessità degli abitanti. Gli affitti, le spese condominiali e le utenze sono a carico degli inquilini, mentre la Fondazione – oltre a gestire le attività educative – si preoccupa del reperimento delle abitazioni stabili e delle spese ad essi relative.
Iniziato nel 2002 con l’apertura della “Casa al sole” come scuola di autonomia abitativa, il progetto ha visto nel giugno 2003 la prima Casa satellite per 4 persone. A marzo 2009 sono state avviate altre due Case satelliti. che hanno visto aggiungersi nel 2012 una quarta e nel 2016 una quinta. A marzo 2016 i giovani integrati nel progetto erano 19, di cui 4 coinvolti nell’iniziale percorso formativo di “Casa al sole” mentre gli altri già occupavano cinque Case satelliti.
È importante sottolineare che il progetto “Casa al sole” affronta in modo innovativo il problema delle persone adulte con disabilità intellettiva che desiderano abitare e vivere in autonomia, e si è finora dimostrato molto efficace per renderle soggetti attivi nella società, rimuovendoli dal puro assistenzialismo. “Casa al sole” è anche una grande sfida, un importante cambiamento culturale, una modalità di relazione basata sulla dignità e capace di riconoscere il valore di ciascuno, nel rispetto di quei limiti che tuttavia esistono e non avrebbe significato negare.
Il progetto “Casa al sole” permette innanzitutto alla persona con disabilità di poter esprimere sé stessa fino in fondo e godere così di una migliore qualità di vita. Aiuta poi le famiglie, che partecipano attivamente a questo percorso di crescita del figlio, a pensare con maggiore serenità anche a quel futuro in cui loro non potranno più essere presenti. Infine non trascurabile è anche l’effetto sulla spesa pubblica, in quanto l’autonomia di vita del disabile non solo riduce i costi di assistenza ma lo rende anche soggetto attivo della vita sociale.
La Fondazione Friuli persegue con particolare convinzione il proprio impegno finanziario a supporto dei “Percorsi di autonomia” e di “Casa al sole”, alla luce di questa nuova modalità educativa e sociale e forte dei successi ottenuti in questi anni grazie al lavoro e alla totale dedizione di tutto lo staff e dei collaboratori della Fondazione Down FVG di Pordenone.

Per ulteriori informazioni: Fondazione Down FVG di Pordenone, Meeting Internazionale di Atletica leggera – Sport Solidarietà di Lignano Sabbiadoro.

«La notte del coraggio»: premio letterario Carlo Sgorlon 2016

Da ragazzo vissi sempre con la testa piena di vento. Vidi una volta un bambino che correva nel cortile con uno straccio sugli occhi e un’estrema sicurezza che fu distrutta bruscamente quando andò a sbattere contro la palizzata dell’orto. Per molto tempo io andai avanti alla maniera di quel bimbo. Non mi chiedevo il perché delle cose, mi limitavo a starci dentro con fervore avventuroso, con la faccia rossa e piena di stupore, come uno che abbia fatto una lunga corsa.
(Carlo Sgorlon, “Il trono di legno)

Quando il sole tramontava, ed il nonno saliva nella piccola stanza da letto per andare a coricarsi, Giovanni si alzava con un sorriso dalla poltrona del salotto e lo seguiva. Quando poi lo raggiungeva, il nonno si fingeva sempre sorpreso e si sedeva sul bordo del letto, intenerito.
«Che storia mi racconti, stasera?» domandava allora il nipotino, con gli occhi sognanti.
Giovanni adorava ascoltare i racconti del nonno. Erano sempre avventure tratte dalla sua vita stupefacente: storie di guerra, di coraggio e nascondigli segreti; il giorno dell’imbarco in una “carretta del mare” per la lontanissima America, gli anni lì trascorsi ed infine la fuga, il ritorno; dall’altra parte dell’oceano aveva lasciato il Friuli, la sua terra, dove aveva lasciato l’amore, favoleggiava…
“Da grande voglio esser come lui”, pensava Giovanni ogni volta, mentre il suo cuore galoppava.
La mamma ed il babbo erano andati, anche loro, a dormire con il calar del sole. La primavera era ormai inoltrata, dovevano alzarsi all’alba per potersi occupare di tutti i lavori; le due sole mucche andavano munte, le uova raccolte, gli orti coltivati. Le loro giornate sfilavano lunghe e faticose, e nemmeno con la pioggia si concedevano tregua.
Quella sera, all’improvviso, l’abbaiare di Kid distrasse Giovanni dalla voce del nonno.
Restò in ascolto per un po’, ma il cane non smise. Decise fosse il caso di andare a controllare. Con un tenero abbraccio, diede la buonanotte al caro nonno e scese i gradini di legno.
La casa era immersa nel silenzio, l’unico suono udibile era il leggero crepitio delle braci quasi spente nel fogolàr. Accanto, c’era ancora il pentolone con i bordi incrostati di polenta, ciò ch’era rimasto dalla cena della famiglia. Giovanni si precipitò alla finestra.
Il giovane cane bianco, solo, si agitava con frenesia. Giovanni non riusciva a capire. Lanciò un’occhiata alle scale, aspettandosi di veder comparire suo padre, ma ciò non accadde. Non ci pensò su; aprì la porta ed uscì di casa.
Udendo quel rumore, Kid si spaventò, strattonandosi in avanti. Guaì. Con uno strappo netto, la corda che lo teneva legato si spezzò.
Il ragazzino gridò. Il cane bianco corse via.
Giovanni lo guardò allontanarsi e non potè restare fermo. Cosa mai gli era preso? Suo padre si sarebbe arrabbiato moltissimo se avesse scoperto che l’aveva lasciato scappare… Ormai era calata la notte. Afferrò una torcia, appoggiata sul davanzale accanto all’ingresso, e col cuore avventuroso partì all’inseguimento.
La vecchia casa, nella periferia di Gemona del Friuli, sorgeva sul limitare di un boschetto nel quale qualche volta lui si era recato per cercare funghi con suo padre o per fare una passeggiata con gli amici, fino al Tagliamento. La città, rispetto alla casa, era ben visibile, situata più in alto; la strada per arrivarci era tutta in salita, ed ogni mattina, dopo aver aspettato lo scuolabus, la percorreva per raggiungere la scuola media.
Kid superò i filari di vite e scappò verso il bosco. Giovanni lo rincorse senza tregua e risultati; finché poi, ad un tratto, lo vide scomparire nel buio. Con le guance rosse ed il fiato corto, si fermò. Si guardò indietro per un istante; si rese conto di essersi allontanato più di quanto avrebbe pensato. Si sentì molto coraggioso, proprio come suo nonno.
Ormai doveva a tutti i costi riprendere Kid, così proseguì, addentrandosi nel fitto degli alberi.
Camminò a lungo, immerso nella notte; per molto tempo fischiò, chiamò il cane. Si guardava attentamente intorno, solo alberi, tronchi schierati come cupi busti di soldati, seppur irregolari, sfiorati dalla luce della torcia. Superò cespugli, scavalcò rocce umide e fredde.
Ad un certo punto, dopo aver provato per un po’ a riempirlo con la voce, il silenzio lo catturò. Era andato avanti fin troppo, esuberante e privo di senno, e per la prima volta si fermò ad ascoltare. Si accorse che l’aria sembrava respirare un’altra vita, all’interno del bosco; i rami oscillavano, ora placidi, ora scossi dal vento. Al di sopra dello sguardo, come un tetto sul cielo, le fronde filtravano la luce silenziosa delle stelle. La terra sotto ai piedi era umida e morbida, a tratti nascondeva foglie secche che scricchiolavano sotto ai passi come vecchie pagine di carta.
Vide di essere arrivato sino all’argine del fiume e vi si avvicinò. Il cielo era sereno, una mezzaluna rischiarava languidamente la notte. La vista dell’acqua sembrò ammansirgli l’animo come un abbraccio di sua madre. Ascoltò, in silenzio, il suo placido scorrere; ascoltò il bosco e se stesso. Comprese il piccolo grande universo che lo circondava come mai prima d’allora, e vedendosi lì immerso, sentendosi piccino, sentì una vertigine, lo colse un senso di paura. Si chiese dove fosse andato il suo cane e si chiese dove stesse andando lui stesso. Tutto sembrò fermarsi.
All’improvviso un boato spaventoso tuonò infrangendo il tempo, e sembrò che qualcosa attanagliasse le viscere della terra. Parve il grido di un gigante, il ruggito di un orco, “l’orcolat” pensò Giovanni, preso dal terrore, mentre la vecchia leggenda dell’orco rinchiuso nelle montagne carniche, di cui una volta gli narrò il nonno, gli pervase la mente. Subito dopo il suolo perse solidità. Giovanni era talmente atterrito da non capire cosa stesse succedendo, la notte lo accecava, la terra prese a tremare. Sussultava, si muoveva, gli sembrava di trovarsi sui cocci malfermi di un immenso vaso infranto. Gridò, provò a scappare ma cadde a terra, mentre il fiume emetteva un violento fragore. Pianse, pensò intensamente al volto di sua madre, credette di morire mentre il mondo lo scuoteva rimbombando di suoni orribili. Il terremoto sembrò durare un’eternità.
Poi l’eternità smise di vacillare.
Giovanni spalancò gli occhi, nel buio, stringendo la torcia. Aspettò. Diffidava di se stesso… Era veramente finita?
Lentamente si alzò. Respirava a malapena.
Un suono, simile a un pianto, si levò in quel momento da un cespuglio vicino. Giovanni ebbe un tuffo al cuore e dopo tanta paura si sentì quasi cedere dal conforto: era Kid! Corse verso il cane bianco e lo prese in braccio, stringendolo a sé. L’animale era freddo e tremava intensamente, tramortito dallo spavento. Giovanni vide che era ferito.
Sospirò: doveva tornare. S’avviò di nuovo nel bosco, i passi instabili come i pensieri. Si sentì così sciocco per non aver pensato al pericolo di addentrarsi lì, al buio, da solo; non conosceva nemmeno la strada di casa. Si sentì sciocco ad aver scambiato per coraggio quel suo modo d’agire così sprovveduto; il nonno non si sarebbe mai comportato così. Alla sua stessa età, tredici anni, giocava alla guerra e leggeva storie sulle trincee, ma non ambiva certo a morire per dimostrare coraggio; e poi nascondersi nei rifugi antiaereo, sotto ai boati della distruzione, scappare per nave, dall’altra parte del mare; sopravvivere in terre lontane. Era questo il vero coraggio. Non c’era nulla da dimostrare, fingersi intrepidi per quale trofeo? Solo ora Giovanni capiva. Aveva visto la vita scorrergli davanti in un istante, come il fiume; non aveva più tempo di avere paura. Voleva soltanto ritornare a casa e capiva perché anche il nonno l’avesse fatto.
Quando ritrovò la strada, ormai albeggiava. Un vento forte proveniva come un sussurro dalla città.
La sua vita cambiò per sempre dopo quella notte. Raggiugere la sua casa e trovare nient’altro che macerie e polvere, anche questo lo cambiò per sempre. Lo accolsero i baci, gli abbracci e le lacrime di una madre e di un padre che avevano perso tutto, ma che ancora scavavano a mani nude nei detriti alla ricerca di un figlio che s’era soltanto smarrito altrove. La loro gioia, il loro dolore, Giovanni non seppe mai realmente come raccontarli. E suo nonno, il suo amato nonno, il suo eroe; egli morì quella notte, sotto le macerie, sotto quel cielo punteggiato di stelle. Giovanni non ebbe mai più sì grande certezza: assieme a lui se ne andò per sempre anche una parte di sé.
Correva la notte del 6 maggio 1976.

NICOLE TURELLO

Alice e Bob imparano a parlare…

…e mamma e papà, entusiasti, a rincorrere amici e parenti tutti per celebrare le prodezze dei loro figli.

No, questa volta non è andata proprio così. Perché Alice e Bob non sono due bambini, non sono nemmeno degli esseri umani: Continua a leggere Alice e Bob imparano a parlare…

Paolo Poli, l’amico che fu e che sarà

In una stampa biedermeier si descrive un giovane “dotato di mille amabili qualità” nell’atto di lasciare la casa paterna. Una sorella lo trattiene amorevolmente per un braccio e anche il cane sembra partecipare al mesto addio. Titolo: «Il figlio prodigo lascia la casa paterna». Per Paolo Poli quel figlio ero io: mi sposavo, lasciavo Venezia, andavo in Friuli Continua a leggere Paolo Poli, l’amico che fu e che sarà

Dal Friuli al Grande Nord

Gli affezionati e benevoli lettori forse ricordano il mio articolo dedicato all’eccezionale aurora boreale che la notte del 25 gennaio 1938 illuminò i cieli dell’intera Europa e della nostra Regione, lasciando un’emozione e un ricordo indelebili in quanti, come i miei nonni materni, la osservarono con i propri occhi, con grande stupore ed altrettanta inquietudine.
Continua a leggere Dal Friuli al Grande Nord

Profilo friulano: Cristina Noacco

Iniziamo, doverosamente, con una presentazione personale.

Certo: sono una friulana nata a Udine (devo dire quando? Ma sì, il 19 settembre 1971) e cresciuta in un paesino di duecento abitanti, Cortale di Reana del Rojale, con riti e canti legati alla tradizione del Friuli salt, onest e lavoradôr.

Un percorso di studi abbastanza “classico”…

Iscritta all’Istituto magistrale Caterina Percoto di Udine per realizzare il sogno di fare la maestra, ho scoperto ben presto che le possibilità di occupare un posto di lavoro sarebbero aumentate in proporzione agli anni di studio. Ma in realtà mi sono iscritta alla facoltà di Magistero di Trieste per studiare la letteratura italiana e soprattutto Leopardi, il mio poeta preferito, dopo – se non addirittura prima – di Dante.

E immagino nasca così il desiderio di comporre poesie…

È stato forse quel malinconico passero solitario a spingermi a scrivere pensieri e ricordi. Sono la voce delle campane e delle rondini, della roggia e dei temporali. Ecco un frammento di pensiero sul rintocco dell’Ave Maria:
Slungje, slungje i braçs
a cirî l’aiar e il soreli.
Al sun de Ave Marie
la veretât e je plantade
inte tiere.

[Allunga, allunga le braccia / a cercare l’aria e il sole. / Al suono dell’Ave Maria / la verità è piantata / nella terra.]

Dove trovano il loro senso queste liriche?

Sono la voce di un radicamento, vissuto con forza e nostalgia soprattutto da quando, nel 1997, mi sono trasferita a Tolouse, in Francia, per continuare l’avventura degli studi con un dottorato di ricerca in Letteratura medievale.

Come mai una simile decisione?

È stato un autore, o meglio, un libro, a cambiare la mia vita: un romanzo in cui il protagonista deve riscattarsi agli occhi della società perché trascura il dovere di battersi. La risposta dell’autore, modernissima, mi ha fatto subito abbracciare la sua ideologia: partire all’avventura, non considerarsi mai arrivati.

Una avventura però non da poco…

Infatti! È iniziata con la traduzione in italiano di quel romanzo, Erec e Enide di Chrétien de Troyes (che ha ricevuto il Premio Leone Traverso Opera Prima per la traduzione nel 2000) e di un’altra storia medievale, Piramo e Tisbe; è continuata con un dottorato e un libro sul tema della metamorfosi nella letteratura medievale francese e continua con dei convegni, ai quali segue sempre la pubblicazione degli atti, su temi che riguardano la mitologia, la metamorfosi, la figura del maestro, il paesaggio allegorico e l’uomo dei boschi.
Ma devo dirlo? Sono partita per non fare la massaia come mia madre!
Lis maris di Cortâl
a son cressudis dretis,
a messe e cul grumâl
e cul comandament
di amâ, parsore dut,
Diu, l’om e la famee.

[Le madri di Cortale / sono cresciute dritte, / a messa col grembiule / e con il comandamento / di amare, soprattutto, / Dio, il marito e la famiglia.]
Desideravo essere considerata per i miei pensieri e non per la mia natura femminile, sinonimo di sacrificio, devozione e abnegazione. Desideravo nutrirmi di conoscenza, per imparare a pensare e a giudicare, per apportare un mattone –anche se infinitesimo – alla costruzione del sapere e condividere la gioia della conoscenza.

Ma com’è capitato di finire in Francia?

Dopo la tesi di laurea a Trieste ho partecipato, quasi per caso, a un congresso internazionale di letteratura medievale e lì, cioè a Garda, dove si teneva il congresso, ho conosciuto degli specialisti del mondo intero. Pensate, c’era perfino il traduttore giapponese del Roman de la Rose! Quando un professore di Toulouse mi ha proposto di iscrivermi alla sua università per continuare gli studi con un master e poi con un dottorato, non mi sono lasciata scappare l’occasione di volare via dal nido. La filosofia e i valori del XII secolo hanno avuto la meglio sui canti notturni e sulla malinconia degli idilli leopardiani, che continuo ad apprezzare come quando sono andata a studiare a Recanati, nella casa paterna del poeta, dove i libri proibiti sono ancora chiusi a chiave dietro la griglia di una vetrina.
In Francia ho trovato più di quanto speravo, perché l’insegnamento della letteratura francese medievale all’Università di Toulouse mi permette di confrontarmi con un pubblico di studenti adulti, che ascoltano con interesse e partecipano (certo, sollecitati dal voto) alle mie lezioni. E non è raro che una volta finito il loro percorso di formazione – se non prima – diventino anche dei buoni amici. Sono fiera di essere la testimone di matrimonio di una delle mie prime studentesse, la confidente di un giovane alle prime svogliato e adesso insegnante a sua volta, la “madrina” di un convegno organizzato da un altro studente, diventato docente di latino nella mia stessa università, l’ospite d’onore a istanbul di una giovane sposa turca, conosciuta quando era studentessa Erasmus, l’amica in visita a un giovane regista in erba, che, dopo aver seguito i miei corsi a Toulouse, si sta specializzando in una famosa scuola per il cinema a Bruxelles. Sento di aver trasmesso a questi giovani un po’ della mia passione per la sfida, la determinazione e la gioia per il lavoro che paga, sempre.

Ma nel frattempo…

L’anno scorso una nuova porta si è aperta: quella dell’espressione personale. Ho infatti trovato il coraggio di pubblicare quei pensieri che scrivevo di sera o in treno, per pormi domande esistenziali o dar sfogo alla nostalgia, insieme a qualche disegno che li illustra. Disegnare e scrivere sono per me due strumenti di espressione molto simili: si selezionano linee, forme, colori – così come suoni parole e frasi – e si sceglie di filtrare il reale, per far entrare nel proprio mondo solo ciò che si ama o che ci emoziona. I miei testi sono proprio questo: ricordi di emozioni, scritti per non dimenticarle.
La raccolta che ho pubblicato la scorsa estate si intitola Morâr d’amôr – Albero d’amore. Dietro il nome comune si nasconde la figura del gelso, che ho voluto figurasse anche sulla copertina del libretto, perché rappresenta per me il simbolo del Friuli, per l’importanza che l’allevamento dei bachi da seta, golosi di foglie di gelso, ha avuto nella storia della nostra regione fra Otto e Novecento. Come ogni albero, anche il mio si compone di Lidrîs, “Radici”, dove racconto l’amore per le mie origini; Ramaçs, “Rami”, che rappresentano le aspirazioni (l’amore, la conoscenza, Dio); Bùtui, “Germogli”, che suggeriscono la nascita di qualcosa di nuovo a primavera, una speranza, mentre l’ultima sezione, Fueis, “Foglie”, fa riferimento alla perdita delle illusioni e al distacco dal ceppo, come le foglie che in autunno cadono lontano dai rami, così come ogni emigrante si allontana con sofferenza dalla sua terra d’origine.
È così: nonostante il piacere di viaggiare, scoprire e imparare, mi sento un’esiliata, pur se volontaria. Affido quindi ai fogli del mio libretto e alle parole di questo scritto le mie confessioni più intime, ma anche l’augurio, per chi rimane, di poter gioire di ciò che possiede, prima di rammaricarsi di averlo perso.
Sêtu? Dulà sêtu?
Vâtu? Parcè vâtu?
Il gno fevelâ:
dûr in bocje,
dolç tal cûr.
…Ce aio di rispuindi?

[Ci sei? Dove sei? / Parti? Perché parti? / La mia lingua: / dura in bocca, / dolce nel cuore. / …Cosa devo rispondere?]
Il friulano e l’italiano, ma talvolta anche il triestino e il francese, diventano strumenti per guardare meglio dentro e intorno a me, per capire da dove vengo, per sapere dove vado, mentre l’acqua della roggia scorre gorgogliando:
Un pas dopo chel altri,
ma tant, tant plui lente,
tu le viodis a cori vie,
jê e dute la tô storie.

[Un passo dopo l’altro, / ma tanto, tanto più lenta, / la vedi scorrer via, / lei e tutta la tua storia.]

intervista a cura della REDAZIONE

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