Paolo Poli, l’amico che fu e che sarà

In una stampa biedermeier si descrive un giovane “dotato di mille amabili qualità” nell’atto di lasciare la casa paterna. Una sorella lo trattiene amorevolmente per un braccio e anche il cane sembra partecipare al mesto addio. Titolo: «Il figlio prodigo lascia la casa paterna». Per Paolo Poli quel figlio ero io: mi sposavo, lasciavo Venezia, andavo in Friuli e ora, nella mia casa friulana, non posso fare a meno di guardare a quell’immagine incorniciata appesa alla parete dietro il computer.
Ma che ne sapeva Paolo del Friuli? Il disincantato ricercatore di filastrocche e poesiole con le quali è stata educata la borghesia italiana (Umberto Eco, col suo «La fiamma della regina Loana» è un suo modestissimo epigono), cosa poteva avere in comune con la semplicità del friulano “onesto e lavoratore”? Più di quanto si creda perché i friulani, per Paolo Poli, avevano la stessa innocenza dei bambini e i bambini non sbagliano mai. «Me lo diceva sempre mia madre: ‘Pao­lo, fai quel che ti viene da fare, andrà senz’altro bene, i bambini intuiscono sempre ciò che è giusto’. Mia madre era maestra, una maestra poco montessoriana, era dalla parte di Rousseau e credeva nei sentimenti del buon selvaggio. Un alpino che ho conosciuto a Maniago mi raccontava che lui, in montagna, si sentiva più vicino a Dio. Come contraddirlo? Gli ho solo risposto che, al contrario, quello stesso sentimento spinge invece i marinai ad essere madonnari».
Deformato da troppa letteratura, condannato ai sentimenti posticci del teatro, Paolo Poli invidiava quanti possedevano un animo naïve, gli spettatori che in un paese del meridione, vedendolo recitare in «Rita da Cascia» il ruolo della Santa, l’avevano preso sul serio e, retaggio di un teatro che obbligava i travestimenti, avevano pianto di commozione.”
Invece tu volevi farli ridere…
«Certo che volevo far ridere. È importante ridere: nella “Guerra del fuoco” lo scimmione ride nel momento in cui diventa uomo!»
Ma Paolo Poli rideva?
A ben pensarci ridere per davvero sino a divenire rosso in volto, l’ho visto una volta soltanto a proposito di uno scherzo giocato a Cesco Baseggio e del quale tacerò. Per il resto sorrideva, covava un suo spleen, melanconie per quando era ragazzetto a Firenze, prima di essere sedotto da un militare americano al quale aveva appena mostrato le opere di Giotto e di Cimabue così contrastanti con quel peccato.
Non faceva mistero della propria omosessualità («È davvero contro natura, sai? Lo dimostra il fatto che fa un male bestia»), certamente la esibiva ma non se ne faceva vanto. Trovava volgari i gay pride e se si vestiva da donna sul palcoscenico lo faceva come caratterista e non come travestito.
Una volta, mentre pranzavamo assieme a Venezia, alla Colomba, un ragazzino, figlio di una sua attrice, si mise a tormentarlo reclamando la sua attenzione. «Sono stato io a dire a sua madre di portarlo qui a Venezia e di non lasciarlo a casa da solo. È cresciuto senza un padre, capisci? Lo so che ti potrà apparire petulante, ma si attacca ad ogni uomo che incontra, anche ad un mezz’uomo come me…».
Era l’anno del suo spettacolo «L’uomo nero», una rivisitazione dell’Italia dei telefoni bianchi e delle camicie di opposto colore. Paolo Poli destò scandalo e venne denunciato perché ballava con movenze da soubrette inguainato in un vestito tricolore. Molti gridarono al vilipendio ma lui menava vanto per quel che gli aveva scritto una sua ammiratrice ottuagenaria: «Lei è più uomo dei fascisti che la contestano, lei ha palle e ha tutta la mia ammirazione!».
Quando gli dissi che andavo ad abitare a San Michele al Tagliamento, a due passi da Latisana, non ricordò solo l’“Odeone” ma soprattutto i vini del Friuli: «Hanno vini splendidi, lo ricorda anche Goldoni nelle sue “Memorie”: li bevi la sera, ma al mattino ti svegli che tutto ti funziona bene, non ci sono veleni, il fegato li filtra benissimo e ti svegli di buon umore. Ti dirò di più: il Friuli è un paese ospitale e ordinato che quasi non merita d’essere in Italia, vedrai che ti ci troverai bene».
E il pubblico di Latisana, quello dell’Odeone?
«Come quello di Venezia alla domenica, un pubblico che ha voglia di sentire qualcosa di trasgressivo, padri di famiglia con l’abito buono, maestrine dalla penna rossa».
Lasciando Venezia per il Friuli, salutavo la mia esperienza condotta come autore per il Teatro Universitario di Ca’ Foscari, quella che mi aveva fatto incontrare Poli, e riprendevo con la mia vocazione antica: la pittura.
Meditavo una mostra a Latisana ma rifuggivo dal chiedere per la locandina una introduzione di uno dei numerosi critici locali che neppure conoscevo.
Ancora una volta – gli avevo anni prima chiesto una mano per la mia tesi di laurea sui testi delle canzoni italiane del primo Novecento – Poli mi venne in aiuto con una esemplare introduzione. «I tuoi quadri», scrisse, «ispirano la dolce aria assonnata della tua provincia morta e mi ricordano tanto le marine dei miei conterranei postmacchiaioili fino a Carrà oppure certa spiaggia vitellonesca di Fellini giovane. I tuoi colori e la tua pennellata sono tutto il contrario di Caravaggio, ma a loro modo diligentemente succedanei dei classici a noi più vicini con una umiltà toccante e poetica, come di chi sa al par di Gozzano che l’esotico può trovarsi anche nei vasi di conserva delle nostre nonne» e così continuava citando il “grigio bekettiano” e le bottiglie di Morandi, ma non riusciva a fare a meno di parlare di teatro, quello «che mi valse la tua conoscenza, quando dieci anni fa eri alle prese con Stecchetti e Pascoli e naturalmente D’Annunzio. Conservo ancora i tuoi copioni che lessi amorosamente. Conoscendoti poi un po’ meglio nel tempo ho avuto modo di apprezzare la tua sincerità, un po’ sorniona e ruffiana come di un chierichetto in visita al canonico, ma vibrante di voglie e di affezioni autentiche. Pietosa insania e felix culpa il teatro se anche oggi, come nel rinascimento, ci si cimentano i papi! Con l’augurio che tu faccia una carriera tutta diversa ma non meno brillante del polacco, ti abbraccio stretto, sperando che queste mie sciatterie testimonino ai tuoi compaesani la mia ferma ammirazione».
Così da Roma, il due marzo del 1979, Paolo Poli mi presentava al Friuli.

SALVATORE ERRANTE PARRINO

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